In una certa narrativa contemporanea, la scuola italiana viene descritta come pervicacemente insensibile all’evoluzione dei tempi, storicamente ancorata a metodologie di didattica e valutazione ormai rarefatte e per molti versi antiquate.
In realtà, la scuola italiana si è aperta (o almeno ha tentato di aprirsi), soprattutto in epoca recente, a una molteplicità di sperimentazioni, che hanno spaziato trasversalmente dalla didattica vera e propria ai profili organizzativi e valutativi. Si tratta di sperimentazioni che non sempre hanno onorato le aspettative, ma che nel complesso hanno introdotto opportunità inattese per gli studenti e consentito di collaudare metodologie e sistemi assolutamente innovativi.
Tra queste rientrano anzitutto i “percorsi sperimentali”. Sono stato infatti nel tempo attivati specifici percorsi con lo scopo di offrire occasioni formative e specialistiche, basti pensare negli istituti di istruzione superiore agli indirizzi ingegnerizzati per il potenziamento delle lingue e di alcune materie scientifiche. Si è trattato forsanche di un modo per modernizzare l’offerta formativa, avvicinandola alle nuove istanze del mercato e della società globalizzata.
Accanto a questi veri e propri “percorsi”, si sono registrate pure sperimentazioni più circoscritte, riferite a specifici aspetti della didattica o dell’organizzazione scolastica. In particolare, alcune innovazioni sono state anche introdotte talvolta per modernizzare lo studio delle materie tradizionali. Ad esempio per lo studio delle lingue classiche (latino e greco) in alcuni istituti è stato utilizzato il cosiddetto “metodo natura” ideato dal linguista H. Ørberg. Si tratta di una metodica del tutto diversa rispetto a quelle tradizionalmente in uso nelle nostre scuole e prevede che il latino e il greco siano studiati con le stesse tecniche previste per le lingue ancora parlate. Gli studenti, ad esempio, imparano a dialogare in lingua e a tradurre senza servirsi necessariamente del dizionario. Ovviamente lo scopo ultimo è di consentire un fisiologico graduale assorbimento dei costrutti linguistici e del lessico, che sono metabolizzati apprendendoli nel modo solitamente utilizzato per le lingue ancora “vive”.
Una ulteriore sperimentazione interessante è quella delle cosiddette “classi senza voti”, che ha per oggetto uno tra gli aspetti più delicati e complessi della vita scolastica, ossia la valutazione dei discenti. Nelle “classi senza voti” agli studenti vengono forniti giudizi descrittivi, che specificano le lacune e i risultati di apprendimento raggiunti, ma non vengono assegnati punteggi numerici, né voti.
Lo scopo è quello di focalizzare maggiormente l’attenzione sul percorso formativo dello studente, senza ingenerare competizione con i compagni e senza “ridurre” la complessità del momento valutativo a un semplice numero o a un aggettivo qualificativo. Mediante un giudizio descrittivo, lo studente è portato a soffermarsi maggiormente sui propri punti di forza e sulle proprie debolezze, acquisendo consapevolezza degli aspetti da potenziare. La soppressione del “voto” consente anche di disincrostarne alcune conseguenze disfunzionali: l’appiattimento della decisione valutativa sulla mera quantificazione matematica del merito, nel più ingiustificato oblio delle relative ragioni giustificatrici, ma anche la tendenza a percepire il confronto con i compagni in termini di competizione talvolta tossica.
In alcuni istituti questa sperimentazione è stata introdotta per un periodo soltanto transitorio e poi quasi immediatamente abbandonata. Si tratta sicuramente di una metodica che richiede uno sforzo di metabolizzazione notevole, perché impone di emanciparsi da una radicata concezione classica della valutazione scolastica basata da sempre sulla graduazione del merito attraverso il sistema dei punteggi o dei voti.
Essenzialmente, siamo infatti abituati a pensare che “valutare” a scuola significhi classificare gli studenti in base alla “bravura”. A ben riguardare, non è però così. Mentre nell’universo dei concorsi pubblici la graduazione del merito è una necessità imprescindibile, perché lo scopo finale della procedura è individuare i migliori, la scuola non ha niente affatto questo stesso obiettivo.
Il fine del percorso scolastico non è premiare i meritevoli, né stabilire una scala di valore tra gli studenti, né classificarli o etichettarli. È invece consentire a ciascun alunno di intraprendere il miglior percorso, di comprendere i propri punti di forza e di debolezza, di maturare e sviluppare le capacità e competenze. L’approccio dello studente non dovrebbe quindi essere per-formativo (cioè di dimostrazione del proprio livello di apprendimento, come avviene in un concorso, per prendere un buon voto), bensì soltanto formativo (cioè di comprendere come migliorare e potenziarsi).
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni