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La copertina del libro di Corrado De Rosa Quando eravamo felici | ph: Minimum Fax

L’Italia che cambia per sempre dagli 11 metri

In libreria il saggio di Corrado De Rosa Quando eravamo felici

Una faglia che si è allargata fino a diventare voragine, inghiottendo le speranze e le illusioni di un intero paese: i rigori di Italia-Argentina, semifinale dei Mondiali del 1990, non strozzano soltanto l’euforia delle notti magiche infiammate dai gol di Salvatore Schillaci, ma convincono gli italiani che il tempo dei sogni era irrimediabilmente scaduto. La sfida del San Paolo è l’architrave di Quando eravamo felici, il saggio dello psichiatra Corrado De Rosa uscito a maggio per minimum fax. Non una storia di Italia ’90, ma un’analisi a tutto tondo di quell’estate italiana, con la Guerra fredda ormai alle spalle e il mondo in repentina trasformazione. La Coppa del Mondo non è soltanto l’apogeo di quel sistema politico e finanziario che, di lì a poco, sarà travolto dall’inchiesta Mani Pulite: Italia ’90 è il balzo nella modernità di un paese che ha voglia di grandeur.

Una scommessa da vincere anzitutto sul campo grazie alla Nazionale allenata da Azeglio Vicini, il tecnico romagnolo che ha raccolto l’eredità di Enzo Bearzot, puntando sulla magnifica genia di talenti per brevità chiamata Under 21: i «gemelli del gol» blucerchiati Roberto Mancini e Gianluca Vialli, il figlio d’arte Paolo Maldini, Riccardo Ferri, Giuseppe Giannini. Accanto a loro, il nuovo golden boy del calcio italiano Roberto Baggio – turbato dalla logorante trattativa per il trasferimento dalla Fiorentina alla Juventus – un manipolo di esponenti della classe operaia (Fernando De Napoli, Luigi De Agostini) e gli ultimi reduci del Mundial spagnolo: il capitano Giuseppe Bergomi, Franco Baresi e Pietro Vierchowod, quest’ultimo scivolato suo malgrado nelle retrovie del gruppo azzurro. Una squadra che piace e diverte, da tutti indicata come la naturale favorita per il titolo. Soprattutto quando si rivela al mondo Totò Schillaci, un’infanzia spesa a contendere le proverbiali 10.000 lire al terribile Tano e alla «banda degli orologi d’oro» giocando a pallone per le strade dei quartieri popolari di Palermo. Partito dalla panchina, Schillaci diventa il personaggio dei Mondiali: un Re Mida dell’area di rigore capace di trasformare in gol gli assist e i suggerimenti dei compagni.

L’entusiasmo intorno alla Nazionale è più che mai giustificato: gli azzurri hanno raggiunto la semifinale senza subire una sola rete tra le gare del girone eliminatorio e le partite a eliminazione diretta. Tuttavia, la sfida con l’Argentina, in programma per martedì 3 luglio, non poteva essere come tutte le altre – e non solo perché l’Italia avrebbe lasciato il fortino dell’Olimpico per la prima volta dall’inizio del torneo: contendere la finale a Diego Armando Maradona nel giardino di casa del San Paolo non sarebbe stato affatto banale. Napoli freme e si dibatte nei giorni della vigilia: è giusto tradire El Diez per la maglia azzurra? Quale accoglienza riceverà il Pibe de Oro, l’uomo che ha rovesciato le consolidate gerarchie del calcio italiano, regalando a Partenope i primi due scudetti della sua storia? Sarà, ma il campione argentino ha già capito tutto: «Mi disgusta che ora tutti chiedano ai napoletani di essere italiani e di tifare contro la Selección. Napoli è stata sempre emarginata dal resto d’Italia, l’hanno condannata al razzismo più ingiusto».

La mossa astuta di chi punta sull’emotività per ribaltare un pronostico sfavorevole, benché l’Argentina – dopo aver perso all’esordio contro il Camerun – avesse pian piano ingranato, strappando la qualificazione alla semifinale dopo aver battuto ai calci di rigore l’ultima edizione della Jugoslavia prima della guerra dei Balcani. Benché il pubblico del San Paolo sia in larghissima maggioranza schierato con gli azzurri, l’atmosfera è meno elettrica del solito, come se la riverenza verso Maradona avesse suggerito un tifo più prudente, quasi ovattato. La rete di Schillaci al 17′ del primo tempo sblocca la selezione azzurra, ma non attenua a sufficienza la carica agonistica dei campioni in carica. Il gioco proposto da Carlos Bilardo – il CT che ha tradito la medicina per il futbol – non è materia per esteti: «Si gioca per vincere. Gli spettacoli vanno bene per i teatri, per i cinema». Conta il risultato, dunque. E il pareggio a metà ripresa di Claudio Caniggia – agevolato da un’improvvida uscita di Walter Zenga – è tutto ciò che serve per incrinare le certezze dell’Italia.

Inizia un’altra partita, in cui i segnali della mente contano tanto quanto la forma fisica. «Ciò che distingue un campione è […] la trance agonistica», argomenta De Rosa mentre accompagna il lettore verso i tempi supplementari e i calci di rigore. Già: chi si presenterà dagli 11 metri e con quale stato d’animo? Ogni tiro dal dischetto è una sfida di nervi, istinto e freddezza. I primi 6 rigoristi – tre per parte – non sbagliano. Poi tocca a Roberto Donadoni sfidare Sergio Goycochea. Il portiere dell’Argentina – che ha sostituito a Mondiale già iniziato l’infortunato Nelson Pumpido – segue le orme del Gato Diaz, il personaggio reso celebre dal racconto di Osvaldo Soriano Il rigore più lungo del mondo: parata in tuffo, San Paolo ammutolito. Maradona non lascia scampo a Zenga: non resta che affidarsi ad Aldo Serena, subentrato a gara in corso a Vialli, per rimandare la resa. L’attaccante nerazzurro calcia addosso a Goycochea: è finita.

Tocca a Bruno Pizzul elaborare il lutto di 27 milioni e mezzo di italiani che hanno assistito alla partita in tv: «Abbiamo fallito l’obiettivo di raggiungere la finale». Che cos’è stata quella partita se non il crepuscolo di un’epoca, l’ultimo barlume di felicità prima di immergerci nei tumultuosi anni Novanta? L’azzurro sarà il colore del rimpianto e dell’amarezza per tutto il decennio, dalla finale di USA ’94 persa ancora ai rigori contro il Brasile fino all’uno-due dei francesi tra Mondiali ed Europei. Eppure, in quel mese di debordante passione, l’Italia si era convinta di essere vincente e all’avanguardia, nascondendo con disinvoltura i suoi mali e le sue contraddizioni. Era l’ultimo giro di giostra prima dell’abisso e della vergogna.

Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni

Carmine Marino
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Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.