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I pilastri della lotta “invisibile” alla violenza sulle donne

Il buio della ragione genera mostri” come affermava Goya.

Infatti quando si parla di maltrattamenti, violenze, “femminicidio”, non si parla per chi li commette di ignoranza fine a se stessa, ma di vera e propria follia generata da una qualsivoglia convinzione, da una autoesaltazione del proprio io e della propria “forza”.

L’estrazione sociale, il contesto economico, le “fobie” del terzo millennio sono solo mere scuse per giustificare un fenomeno dilagante, anche se, non dobbiamo dimenticare che sin dall’inizio dei tempi il sesso debole è stato considerato come tale. L’unica differenza è che, questa condizione della donna vittima di qualsivoglia violenza, non veniva pubblicizzata come fenomeno del momento senza una plausibile soluzione.

Perché, dobbiamo riconoscere a noi stessi, che ogni qualvolta ci perviene una notizia del genere, cresce l’indignazione, cresce una rabbia antica celata dentro noi donne (e si spera anche negli uomini), ma in concreto tali sentimenti rimangono lì, dietro ad uno schermo del televisore, dentro la nostra calda ed accogliente dimora.

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L’opinionismo di massa ci richiede di valutare tutte le presunte e poco plausibili scusanti dell’ultima ora, di valutare la “zona grigia” che si cela dietro tali eventi.

Purtroppo non c’è una zona grigia, non c’è un presunto complottismo, c’è solo un dato di fatto, cioè migliaia di donne che vivono questa situazione.

Come in molte cose nella vita, c’è solo il bianco o il nero, il “buio della ragione” a cui si riferiva Goya.

Il Legislatore, in Italia, per contrastare lo sdegno dell’opinione pubblica, ha posto in essere nuove norme per contrastare la cosiddetta “violenza di genere”, chiamata dai più “Legge sul Femminicidio”, la legge del 15 ottobre 2013, n. 119.

Vengono quindi inasprite le pene qualora tali atti di violenza siano posti nei confronti del partner, nei confronti di donne in stato di gravidanza, se tale maltrattamento è perpetrato in presenza di minori, costretti ad assistere ad episodi di violenza domestica (la cosiddetta “violenza assistita”).

Ed ancor vi è un inasprimento della pena anche per il delitto di atti persecutori (stalking), posto anche attraverso strumenti informatici o telematici.

Ci si è preposti la creazione di uno strumento ad hoc, per contrastare la violenza e, nei casi più estremi l’omicidio di un essere umano, la cui unica colpa è esser nata con il sesso “sbagliato”.

Molti considerano ciò come una sconfitta morale del genere umano, mortificante per il genere femminile. Perché dopo tutte le riflessioni, gli approfondimenti di genere, vi è una profonda incapacità nel far comprendere alla totalità degli individui, la valenza dell’esser donna, ma anche essere umano ed in quanto tale “degna” di non essere considerata da meno, di non aver bisogno di una repressione legislativa per far comprendere la gravità dell’atto e il suo diritto ad esistere.

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Si è concordi nel ritenere che l’essere umano ha sempre avuto bisogno di vincoli, linee guida, per percorrere la retta via, ma la mancanza di una auto-analisi non può essere sopperita a lungo.

Particolare valenza e quindi aiuto concreto in questo turbine legislativo (susseguitosi per anni), si ha con la possibilità da parte della vittima di violenza di essere ammessa all’istituto del patrocinio a spese dello Stato, in deroga anche ai limiti di reddito.

In concreto la possibilità di permettere a soggetti non abbienti o a coloro i quali sono vittime di determinati reati, di farsi assistere da un avvocato, un consulente tecnico di propria scelta, senza l’onere di dover pagare le spese sia di difesa che processuali.

Elemento utile per far si che oltre alle “spese” morali, non vi sia l’aggiunta di quelle materiali, così da favorirne non solo la volontà di denunciare (libera da ogni condizionamento), ma anche da creare un importante precedente, sprone per le altre vittime.

Con la Legge, n. 119, del 15 ottobre 2013, si era prevista l’erogazione di fondi in supporto dei Centri antiviolenza, così da potenziarli e renderli una realtà ancor più incisiva.

I Centri antiviolenza in Italia nascono grazie al movimento femminista, che per primo portò alla luce una delle problematiche più celate per quanto riguardava l’esser donna, ossia la violenza domestica.

L’atteggiamento dell’epoca, poco sensibile alle problematiche femminili veniva contestato in quanto vera e propria sottomissione alla quale la donna veniva ad esser sottoposta, in primis in un ambiente definito sicuro per eccellenza, la propria casa.

Dapprima tali “movimenti” si svilupparono sotto forma di associazioni no-profit, volontariato, sino a diventare una vera e propria “rete” nazionale di aiuto e sostegno.

Tale realtà negli anni è rimasta ai più sconosciuta, ma non per questo non attiva.

Eppure nonostante il poco valore mediatico che viene attributo agli stessi, i risultati ottenuti non sono di poco conto.

Essi rappresentano i veri e propri pilastri della lotta “invisibile”, contribuendo a sostenere coloro le quali ancora sono bistrattate in quanto vittime di violenze ancor oggi “scusabili”.

I Centri antiviolenza e le associazioni correlate donano concretezza:

  • ospitando le donne che subiscono maltrattamenti e violenze;
  • in accordo con strutture protette fanno si che, in casi di particolare emergenza o pericolo per l’incolumità della donna o della sua prole, gli stessi possano trovare rifugio;
  • portano avanti la cosiddetta “accoglienza telefonica”, primo vero contatto della donna con il Centro, nella maggior parte dei casi;
  • vi è sostegno psicologico alle donne che si rivolgono ai Centri, attraverso percorsi di auto-aiuto sia individuale che collettivo;
  • vi è stimolo all’auto-determinazione delle donne che, visti gli atti subiti, cadono in una parvente rassegnazione ed autopunizione;
  • accompagnamento nella ricerca di una soluzione abitativa e nella ricerca inerente all’inserimento lavorativo, così da rendere autonome le donne in questione;
  • aiuto e supporto nel disbrigo di pratiche burocratiche;
  • collaborazioni con gli Enti Locali, le forze di polizia, le associazioni di donne e volontariato, i servizi socio sanitari per permettere che si metta in modo un supporto a tutto tondo;
  • formazione per le volontarie delle strutture;
  • promozione di eventi per informare e prevenire la violenza;
  • consulenze legali e psicologiche gratuite

Fattivamente si prospettano come dei luoghi di aiuto si, ma anche di confronto ideale e culturale.

Infatti il più grande aiuto che si può dare ad una donna vittima di violenza (fisica, morale, economica, psicologica) è appunto la consapevolezza di non essere sola, di non essere ne la prima ne l’ultima ad aver affrontato questo “male”.

Molti non sanno che in molti Centri antiviolenza, le donne vittime di tali violenze ed aiutate dallo stesso centro, ritornano per prestare il proprio contributo alla causa e sostenere, vista l’esperienza, coloro le quali richiedono aiuto.

Ci si chiede inoltre il perché nei Centri antiviolenza non vi sia una considerevole partecipazione maschile.

In realtà è facile comprendere che, in un percorso di auto-aiuto, di sostegno fisico e morale, la donna vittima, si senta ovviamente più incline ad aprirsi su tali temi con altre donne.

Confrontarsi con chi ha dovuto superare il “fanatismo maschile” anche in altri ambiti, anche con conseguenze meno gravi.

Non si tratta di demonizzare il genere maschile, anzi, l’essere consapevoli delle proprie capacità, del proprio essere fortifica le donne.

Purtroppo, nonostante queste realtà, nonostante le numerose proposte di legge, i seminari, la fruibilità di determinate tematiche, ancor oggi nessuno riesce a prospettare vere e proprie soluzioni.

Perché l’unica vera soluzione sarebbe evitare l’auto-esaltazione di alcuni uomini (non tutti fortunatamente), il loro uscire vittoriosi da ogni genere di rapporto e considerare che tutti devono essere liberi di autodeterminarsi e di essere se stessi. Bisognerebbe prendere ad esempio tutti quegli uomini che rispettano realmente l’altro sesso, ciò non li rende meno virili o meno padroni di se stessi, anzi sono capaci di riflettere la propria consapevolezza del saper rispettare e vivere in una società.

Erika Rodighiero
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Classe '88. Laurea Magistrale in Giurisprudenza. Praticante avvocato penalista. Appassionata di musica, suona basso, chitarra ed è una collezionista incallita di vinili. Ama leggere Bukowski ma ogni tanto non disdegna Cosmopolitan.
Anche se abita in una tra le più calde regioni d'Italia, pratica lo snowboard.