Piccole donne, ma “grande” film! Tratto dal leggendario romanzo di formazione di Louisa May Alcott, il nuovo adattamento cinematografico di Greta Gerwig, dati i quattro precedenti, riesce con successo nella sfida: brillante, personale, femminista. Non un semplice remake di un noto capolavoro letterario, ma una rilettura personale e originale delle opere, dal momento che vengono trasposti anche i sequel.
La Gerwig compie un’operazione duplice: unisce una sostanziale fedeltà – non cambiando nulla della trama di base e rispettando le caratteristiche essenziali delle sue meravigliose e amatissime protagoniste – con uno stile di sceneggiatura e di regia moderno e vivace. Uno degli elementi caratterizzanti è senza dubbio il tempo, infatti la narrazione procede su due linee parallele: presente – con cui si apre il film e vede Jo con la passione della scrittura come insegnante privata a New York – e passato – con tutte e quattro le giovani a casa insieme diversi anni prima.
Grazie a questo binomio temporale che si esplica con l’alternanza del presente e continui flashback, il film è caratterizzato da dinamismo e vivacità. La storia delle quattro sorelle March – Meg, Jo, Beth e Amy interpretate rispettivamente da Emma Watson, Saoirse Ronan, Eliza Scanlen e Florence Pugh – la conosciamo tutti (o quasi): ai tempi della Guerra civile americana le piccole donne vivono con la madre in una cittadina del Massachusetts in attesa che il padre torni dal fronte; tutte e quattro, molto affiatate seppur con caratteri diversi, provano ad inseguire i loro sogni nonostante la società e la cultura patriarcale dell’epoca.
Il parallelismo temporale della narrazione sembra in un certo qual modo riflettersi sulla trattazione dei temi centrali: la crescita personale caratterizzata da una forte autodeterminazione, soprattutto nei personaggi di Jo ed Amy, perché “le donne hanno una mente, un’anima e non soltanto un cuore, hanno ambizioni, hanno talenti e non soltanto la bellezza“, contrapposta ad una serie di stereotipi che evidenziano i limiti del ruolo femminile dell’epoca messi in scena con ironia come quando l’editore, cui si presenta una speranzosa Jo March, ribadisce più volte “deve scrivere un romanzo in cui la protagonista femminile alla fine si sposa o muore”.
Dunque oltre al tema familiare, le privazioni a causa della guerra, la nostalgia per l’infanzia che passa, i rapporti che cambiano e i ruoli che evolvono, la Gerwig pone in notevole rilievo il tema del ruolo della donna nella società dell’epoca, con un’attualizzazione spiccatamente femminista, senza però forzare la mano, bensì rendendo i personaggi molto vicini a noi e lo stesso film una riflessione sul tema dell’emancipazione. Amy – che ha il dono della pittura – vezzosa e infantile durante l’adolescenza, si rivela dopo il viaggio per affinare la sua arte pittorica in Europa più fiera e consapevole: “io voglio essere il massimo o niente“.
Dall’altro la ricca zia March -personaggio conformista, ma anticonvenzionale allo stesso tempo- spinge le nipoti a mettere su famiglia con un buon partito, ma quando Jo le ricorda che proprio lei non si è mai sposata e vive viaggiando per il mondo, replica “ma che c’entra, io sono ricca!“. Meg, la maggiore delle quattro, che sogna invece una famiglia e dei figli, desiderio di vita semplice e riduttivo agli occhi di Jo, ci ricorda che nonostante tutto scelte diverse sono possibili: “Se i miei sogni sono diversi dai tuoi non significa che siano meno importanti“.
Jo – alter ego della scrittrice Alcott e della regista/sceneggiatrice Gerwig – sognando l’indipendenza economica e la realizzazione in campo professionale, cerca in queste prima ancora che nell’amore la sua personale via della felicità. Ripudia dunque in modo alquanto coraggioso per l’epoca l’amore, ma ci ricorda che il desiderio di autonomia ha un costo: porta anche molta solitudine. Emozionante quando confessa che “vuole essere amata”, ma la madre le ricorda che “non è la stessa cosa che amare”.
Nonostante tutto il film non sminuisce l’istituzione matrimoniale, anzi, nel finale tutte le sorelle, eccetto Beth, trovano il vero amore e i matrimoni rappresentati, primo tra tutti quello dei genitori March, sono esempi positivi di amore e di sostegno reciproco. Il film, sebbene sia ispirato ad un romanzo dell’800, fa dunque riflettere, intrecciando la tematica femminista alla riflessione sull’arte, alla libertà espressiva, ai diritti di pubblicazione, su quanto fosse duro per una donna -e quanto sia, purtroppo ancora così- affermarsi professionalmente e in modo indipendente, alla pari di un uomo.