Sara Immè, classe ‘89, è una ragazza di Siracusa che appena uscita dal liceo, come molti ragazzi di quell’età, decide di lasciare la Sicilia e diventare una studentessa universitaria fuori-sede. Destinazione: Roma, facoltà di giurisprudenza presso la Luiss. Progetto: specializzarsi in diritto di famiglia, ritornare nella sua città e lavorare in uno studio legale. Nell’estate del 2011, tra il terzo e il quarto anno d’università, si unisce a Maria Vittoria e Severa Azzarello per un’esperienza di volontariato, recandosi in un orfanotrofio di Suore Orsoline a Dodoma, in Tanzania. Già mentre sono lì, le tre ragazze decidono che quello non sarebbe rimasto un semplice viaggio, una mera conoscenza di una realtà diversa, da archiviare in un capitolo della loro vita. Al contrario, sentono la necessità di fare qualcosa di concreto per la comunità che hanno conosciuto, convinte del fatto che i bambini con cui stanno condividendo le loro giornate abbiano bisogno che qualcuno sappia della loro esistenza, li raggiunga e gli porga una mano.
Al loro rientro, nel giro di poche settimane, fondano Papango, nata come associazione studentesca della LUISS e poi diventata un’associazione no-profit che promuove l’istruzione, la cultura e lo sport come mezzi per combattere la povertà e l’emarginazione e sostenere lo sviluppo umano e l’indipendenza economica di ogni individuo.
Nello specifico, Sara, presidente di Papango, tornata in Italia mette in discussione tutti gli obiettivi che fino a quel momento pensava di voler raggiungere e che ormai sembrano non appartenerle più.
Capisce che la professione forense non è quello che realmente vuole per il proprio futuro, ma sa che per dare un contributo concreto alla causa che ha sposato da quel momento in poi, necessita di strumenti adeguati e gli studi giuridici possono rappresentare un buon punto di partenza. Termina il percorso accademico e dopo la laurea parte per Londra con l’obiettivo di imparare l’inglese; lì vive per un anno, svolge uno stage non retribuito a contatto con rifugiati e richiedenti asilo minorenni e lavora come baby-sitter e supervisor agli esami in un istituto scolastico. Frequenta, in seguito, un master in Cooperation and Development a Pavia.
Dopo una lunga esperienza in Libano dove ha gestito vari progetti per migliorare le condizioni di vita della popolazione siriana -in particolare un progetto volto a sostenere le donne, molte delle quali vedove della guerra civile, mediante la loro formazione professionale e la costituzione di piccole imprese al femminile, per fornire loro accesso a fonti di reddito ed indipendenza economica – oggi lavora a Roma, presso una ONG.
In questi anni, intanto, Papango è diventata una realtà molto attiva che gode del supporto di tanti volontari, alcuni dei quali nel tempo hanno deciso di associarsi e dedicarsi in modo stabile e continuativo alle attività portate avanti dall’associazione. Ci sono Laura Immè, responsabile della comunicazione e della raccolta fondi, Benedetta Caporusso, rappresentante Papango presso la Luiss, Francesco Portoghese, esperto in protezione dei diritti umani che cura le iniziative a supporto dei rifugiati e richiedenti asilo, e Camilla Carignani e Daniela Nardella che si occupano dell’organizzazione degli eventi.
I ragazzi di Papango, insieme a tanti altri volontari, realizzano la raccolta di fondi utili al miglioramento delle condizioni di vita delle comunità dei paesi in via di sviluppo, come il Kenya, la Tanzania e la Somalia. La raccolta avviene mediante varie attività: stand nei negozi aderenti per incartare i regali di Natale, aperitivi solidali, tornei sportivi. Molto “successo” riscuotono le bomboniere solidali, realizzate con stoffe provenienti dal Kenya e dalla Tanzania.
Inoltre, Papango lavora per favorire l’integrazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati in Europa. Per questo, oltre a collaborare con altre associazioni, organizza incontri volti a far conoscere le storie dei rifugiati, per sensibilizzare ed avvicinare soprattutto i ragazzi ad un mondo che spesso fa paura solo perché sconosciuto.
Da qualche anno è attiva una collaborazione con Amal for Education, a Killis, in Turchia. In questa città vivono 115 mila rifugiati siriani, di cui metà sono bambini e ragazzi che non hanno potuto frequentare la scuola per molto tempo e la maggioranza dei quali è, quindi, analfabeta. Amal for education ha creato lì un centro educativo a sostegno delle attività didattiche e sportive per circa 350 bambini siriani.
Papango collabora al progetto, condividendo non solo l’idea dell’istruzione come fonte imprescindibile per lo sviluppo umano, ma il valore dello sport come opportunità di inclusione sociale ed, in generale, opportunità di vita. A Killis, inoltre, lo sport rappresenta per i bambini un momento di spensieratezza, dove potersi divertire e, almeno per qualche ora, dimenticare di aver conosciuto la guerra. Nessun bambino dovrebbe conoscere la guerra.
Abbiamo incontrato Sara – cofounder e presidente di Papango – e, tra una risata e forti emozioni, le abbiamo chiesto di rispondere ad alcune domande per conoscere meglio lei e l’associazione.
Ciao Sara, ci racconti come è nata l’idea del viaggio che ti ha cambiato la vita?
Ciao Mery. La mia presenza in quel viaggio fu del tutto casuale. Era il 2011 e avevo da poco conosciuto Maria Vittoria, con cui poi ho fondato Papango.Nell’estate di quell’anno lei sarebbe dovuta partire con sua sorella Severa ed un’altra loro amica per questa esperienza di volontariato in un villaggio a Dodoma, in Tanzania; avevano il viaggio organizzato da mesi e a giugno questa loro amica si tirò indietro, così Maria Vittoria mi propose di sostituirla. Qualcosa dentro di me mi diceva di andare e, nonostante il poco tempo, riuscii a fare tutti i vaccini e a partire.
Qual è stata la prima sensazione che hai avuto quando sei entrata in contatto con quella realtà?
La prima parola che mi viene in mente è bellezza, perché quando ti accolgono quei bambini sorridenti e c’è un sole abbagliante come non lo hai mai visto, i colori brillano, i sapori sono così intensi, puoi pensare solo alla bellezza.
Come trascorrevate le vostre giornate?
Durante la giornata accompagnavamo i bambini a scuola a piedi, mungevamo le mucche, curavamo l’orto dell’orfanotrofio, cucinavamo, stiravamo e insomma facevamo tutto quel che c’era da fare. La domenica c’era la messa, la più bella alla quale io abbia mai partecipato; la vita dei bambini era scandita dalla preghiera.
Sentivo i miei genitori una volta alla settimana, ma i prezzi delle telefonate erano incredibili. Ogni tanto, quando andavo in città, scrivevo un’email a loro e al mio ragazzo dell’epoca. Eravamo più o meno isolate ed è probabilmente questa esperienza nell’essenzialità delle cose che mi ha fatto toccare con mano il senso della vita, o almeno quello che per me è il senso della vita.
Immagino, dalla tua storia, che dopo questo viaggio sia cambiato il tuo modo di vedere le cose, puoi farmi qualche esempio?
Mi ricordo che quando tornai, aprii la porta di casa ma poi mi bloccai improvvisamente sull’uscio e feci un repentino passo indietro: tutto quello che avevo mi sembrava troppo. I mobili, le comodità e tutte quelle cose che a Dodoma non avevo ma di cui non sentito affatto l’esigenza. Mi pietrificò l’abbondanza delle cose, il nostro troppo paragonato al troppo poco o al niente che avevo appena visto. Da lì in poi ho iniziato ad apprezzare tutto quello che avevo. Il senso è questo: non abbiamo la colpa di avere cose in più, ma dobbiamo saper apprezzarle. Quando non apprezziamo una cosa, quando non siamo grati per quello che la vita ci ha dato senza alcun merito è in quel momento che la stiamo sprecando. Dico “senza alcun merito” perché è solo una questione di fortuna che noi siamo nati in questa parte del mondo. Ero grata per ogni cosa che avevo, ti dicevo, ma allo stesso tempo molte cose che avevo mi sembravano totalmente superflue. I primi tempi non compravo niente e solo di recente sto imparando a sentirmi meno in colpa per le cose che compro o se spendo dei soldi per una serata con le amiche.
Quanto è stato importante il supporto della tua famiglia in questo percorso?
Non sono sicura che avrei potuto fare questa esperienza senza la mia famiglia. Credo che il modo in cui sono stata cresciuta e amata mi abbia portato fino a qui. I miei genitori mi hanno sostenuto nel momento in cui, appena tornata dalla Tanzania, ho deciso di non fare più nulla strettamente legato al mondo giuridico. Guardandomi negli occhi hanno capito immediatamente di cosa stavo parlando e non hanno esitato un secondo ad appoggiarmi in un progetto che, intuirono subito, non sarebbe sfumato di lì a poco. Non ti nascondo che ogni tanto, quando mi vedono demoralizzata, mi chiedono Perché non fai l’avvocato? ma comunque restano i miei fan più sfegatati. Altrettanto posso dire dei miei fratelli e delle loro famiglie. Senza mia sorella Laura molti progetti di Papango non sarebbero mai stati portati a termine; inoltre, quando guardo i miei nipoti capisco come dovrebbe vivere un bambino e questo mi dà la forza di continuare a lottare per quello in cui credo.
Raccontaci di un progetto di Papango a cui tenete di più e di un progetto in cantiere.
È difficile rispondere a entrambe le domande perché con ogni progetto realizzato abbiamo un legame particolare e, per quanto riguarda il futuro, le cose che vorremmo fare sono tantissime.
Forse, per le emozioni che provammo, il primo progetto fu il più intenso. L’associazione era nata da un mese, io e Maria Vittoria giocavamo nella squadra di calcio a 5 della Luiss e pensammo di poter aiutare le persone avevamo conosciuto in Africa tramite qualcosa che conoscevamo bene; perciò organizzammo un torneo di calcio chiamato “Tutto in una notte” perché, appunto, le partite si svolsero tutte quella sera fino alle 3:00 del mattino. Parteciparono 100 atleti, più gli arbitri, gli assistenti ecc. In quella notte ci rendemmo conto del potenziale delle idee, della forza del contagio. Con un’espressione romantica, io la chiamo “scia d’amore”, ed è qualcosa che nacque quella notte, c’è ancora oggi e non si fermerà.
Tra i progetti futuri, oltre all’aspirazione che Papango diventi una ONG grande e strutturata, in grado di offrire un aiuto forte e professionale a chi ne ha bisogno, c’è il progetto di costituire gemellaggi tra scuole italiane e scuole in paesi in via di sviluppo pe creare ponti, momenti di scambio e arricchimento reciproco. Lo stesso anche con le società sportive; noi teniamo tantissimo allo sport…se penso semplicemente al fatto che quando ho iniziato l’università ero spaesata e ho trovato nella mia squadra di calcio la mia seconda famiglia e provo a riportare questo sistema in posti dove le persone non parlano tra loro perché hanno nazionalità e religioni diverse, mi rendo conto che lo sport può fare tanto, perché in un campo le barriere culturali si sgretolano da sole.
Spesso c’è diffidenza nei confronti delle associazioni benefiche. Quali sono secondo te i fattori che le persone devono valutare per potersi fidare?
Per le organizzazioni più grandi e strutturate ci sono i bilanci pubblici ed è possibile verificare l’utilizzo dei contributi che arrivano.
Noi, che siamo piccoli, invece, ci mettiamo la faccia. I nostri progetti li proponiamo e li realizziamo personalmente e ci teniamo a far conoscere sempre la storia dell’associazione. I nostri percorsi di vita dimostrano che questa causa l’abbiamo sposata sotto ogni punto di vista: in questo momento io lavoro in una ONG a Roma e Maria Vittoria è in Kenya.
Infine, preferiamo coinvolgere le persone in modo attivo piuttosto che chiedere un aiuto economico. La nostra forza sono le persone che hanno conosciuto Papango e che offrono il loro contributo fatto di idee, tempo e passione, come Anna, Chiara, Greta e Maria Teresa, che ringrazio profondamente: niente di ciò che fate è scontato.
Cosa ne pensi dello slogan “Aiutiamoli a casa loro”?
Si tratta di una frase estremamente semplicistica. In linea assoluta, aiutare qualcuno nella sua casa, nella sua terra, è una cosa fantastica. Il lavoro che ho scelto di fare con l’ONG per la quale lavoro e che speriamo di poter realizzare con Papango, facendola crescere, è quello di fare in modo che le persone non emigrino, realizzando progetti di sviluppo nei loro paesi di origine. Il senso della cooperazione internazionale è proprio quello di arrivare ad un punto in cui ogni paese sia indipendente e che la stessa cooperazione internazionale non abbia più ragion d’essere. Ma oggi questo slogan è espresso a gran voce per non aiutare le persone, né a casa loro né qui. Non c’è nulla di vero dietro questa frase né la minima volontà di fare qualcosa di concreto che le conferisca significato; perciò mi fa molta rabbia.
C’è stato un momento in cui ti sei sentita impotente e hai pensato di arrenderti?
Questo succede periodicamente e si amplifica quando mi trovo in contesti complessi, come quando ero in Turchia e non potevo dire a nessuno quanta paura avessi. Mi capita di sentirmi piccola rispetto alla poca considerazione che la politica internazionale riserva all’ingiustizia che c’è nel mondo. Perché è di ingiustizia che stiamo parlando: noi per nessuna motivazione abbiamo delle cose e loro per nessuna motivazione non ne hanno molte altre. È ingiusto, per esempio, che noi abbiamo un passaporto per andare dove vogliamo e molte persone nel mondo non lo abbiano, per non parlare dei diritti che per noi sono inviolabili e in alcuni posti sono calpestati ogni momento. Spesso mi domando “Veramente penso di poter cambiare la vita di qualcuno?” ma poi, grazie alle persone che ho accanto e al ricordo delle esperienze che abbiamo vissuto, ritrovo la motivazione e la forza.
Te la senti di raccontarmi il momento che ti ha emozionato di più?
Ce ne sono tantissimi ma provo a descrivertene un paio. Sicuramente il giorno della nostra partenza dall’orfanotrofio in Tanzania: i bambini più piccoli ci accompagnarono fino alla macchina, piangevano e non volevano più staccarsi dalle nostre gambe. Le suore li dovettero prendere di forza per lasciarci andare. Mi hanno preso un bel pezzo di cuore e ancora oggi il loro pensiero è la mia linfa per continuare.
Un altro risale al 2014, quando con Papango stavamo raccogliendo materiale per bambini delle famiglie di Siracusa in difficoltà e per i figli dei migranti che in quel periodo sbarcavano in Sicilia. Mi avvicinai a mio nipote, che aveva 3 anni, gli spiegai che stavamo raccogliendo giocattoli per bambini che non ne avevano e gli chiesi se avesse voglia di donare qualcuno dei suoi. Si allontanò e dopo poco tornò con due macchinine. La rapidità della sua scelta e la risolutezza del suo gesto mi emozionarono profondamente; il giorno seguente sua madre mi disse che quelle erano le sue macchine preferite.
In generale mi emoziona la gentilezza e la bontà delle persone nonostante intorno a noi sembrino avere la meglio l’odio e la violenza; mi emoziona oggi ripensare che da un viaggio sia scaturito tutto questo e che una ragazza con mille interessi abbia scelto me e Papango per la sua prima intervista.
Un consiglio ai nostri lettori riguardo le tematiche che abbiamo affrontato?
Partite, viaggiate, uscite dalla vostra confort zone. Informatevi, leggete, approfondite ogni cosa: è l‘unico modo per sconfiggere questa cultura dell’odio e capire che le cose sono diverse da come ce le narrano.
Scegli una frase per concludere questa nostra chiacchierata.
Non può che essere la frase di Ghandi, che è anche lo slogan di Papango: “Be the change you want to see in the world”.
Grazie infinite Sara.