Ho letto su uno di quegli opuscoletti motivazionali che la discriminante tra una persona di successo e un povero fallito è fra le altre cose la capacità di adattarsi ai cambiamenti, anzi l’opuscoletto più precisamente sosteneva che“L’uomo, per dirsi di successo, deve abbracciare il cambiamento”. Io a dire il vero ho quasi sempre mal digerito i cambiamenti. Non credere più in Babbo Natale non è bello, ascoltare la nuova voce di Homer Simpson non è bello, passare dal vedere bim bum bam al tg1 non è bello, aver avuto il dispiacere di ascoltare Random Access Memories non è bello. Voglio dire, una delle poche certezze della mia vita erano i Daft Punk, gli inventori della “French House”, coloro i quali non avevano mai sbagliato un disco.
Correva l’anno 2000 e un piccolo sbarbatello di dieci anni veniva letteralmente folgorato da un filmato appena andato in onda su MTV. Si trattava del video musicale di “One More Time”, uno dei pezzi house più conosciuti e ballati di sempre, tanto da essere considerato secondo la rivista statunitense Rolling Stone uno dei 500 migliori brani di sempre. In realtà “One More Time” è molto semplice nella sua struttura: il riff è interamente campionato da More Spell on You di Eddie Johns e fa da cornice alla voce di Romanthony (venuto purtroppo a mancare a maggio del 2013) massicciamente auto tuned e compressa, eppure da tale semplicità è nata una hit davvero ipnotica e con un che di magico. Ero (e lo sono ancora) così follemente innamorato di One More Time che ciò mi spinse ad andare alla ricerca di ogni cosa che riguardasse i Daft Punk cioè due giovani producers parigini di nome Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter; dai loro inizi nel gruppo musicale dei Darlin’( oltre al duo era presente anche Laurent Mazzalai che poi formerà col fratello la band dei Phoenix) che la critica musicale britannica definì “a bunch of daft punk” (un gruppo di giovani teppisti) da cui poi Guy e Thomas trarranno il loro nome artistico, all’incidente capitato durante una studio session alle ore 9:09 del settembre 1999, quando un macchinario musicale esplose e, a detta loro, li trasformò in robot.
In effetti il fatto che si mostrassero al pubblico sempre vestiti da robot mi ha sempre affascinato, come se a loro non interessasse prendersi troppo sul serio, né ci tenessero minimamente a mostrare la propria immagine al pubblico ma piuttosto preferissero lasciar parlare la propria musica e trasmettere l’idea di ciò che significhi essere “Daft Punk”: innovazione, sperimentazione, scoperta o meglio, concepire la musica funk, rock, disco anni 70 e pop come la concepirebbe un robot. Ho persino apprezzato il loro discusso album “Human After All” che divise pubblico e critica, reo di essere stato creato troppo frettolosamente (in sei settimane) e in modo superficiale: certo nulla di paragonabile a “Discovery” o al leggendario “Homework” (secondo me tra i primi dieci album di musica elettronica in assoluto) ma è sicuramente un album molto coraggioso che non lascia indifferenti. Da applausi poi la colonna sonora del mediocre film Disney “Tron: Legacy”, loro penultima fatica musicale targata 2010 e, mentre sulle note di “Derezzed” la mia venerazione nei confronti dei robot di Parigi si stava oramai trasformando in vera e propria ossessione, ecco spuntare sul più bello l’annuncio della produzione di Random Access Memories (RAM), l’album che ho atteso per tre lunghissimi anni.
Credo di non aver mai atteso così spasmodicamente un disco, dal febbraio del 2013 (mese in cui i Daft Punk annunciarono l’uscita di “RAM”) fino al maggio dello stesso anno (data di uscita dell’album) non c’era giorno in cui non andassi alla ricerca di news, sperando pietosamente di scovare qualche brano di “RAM” in anteprima, arrivando finanche ad autoconvincermi che i fake che giravano su youtube fossero davvero frutto di un qualche attacco hacker al pc di Guy e Thomas. Quando a marzo riuscii ad ascoltare per la prima volta l’anteprima di “Get Lucky” pensai si trattasse di un altro fake, poi però mi accorsi che effettivamente l’anteprima proveniva direttamente dal loro sito ufficiale (di lì a poco sarebbe poi uscita la traccia intera, come singolo apripista di “RAM” e divenuta una super hit in poche settimane) e immediatamente capii che sarebbe capitato qualcosa di molto spiacevole. Il 21 di maggio finalmente Random Access Memories è disponibile su Itunes, passo tutta la giornata ad ascoltarlo e purtroppo salvo la bellissima “Giorgio by Moroder” (omaggio a Giorgio Moroder, padrino della Italo Disco anni 80) e un altro paio di brani, l’album che avevo tanto atteso si rivela ai miei occhi una cocente delusione. Bene inteso, l’album da un punto di vista musicale (e vorrei vedere avendo un budget quasi illimitato) è ineccepibile, vanta collaborazioni di altissimo spessore(tra i tanti: Julian Casablancas, Nile Rodgers, Noah Lennox, e il succitato Giorgio Moroder) e una stra super mega hit da quasi 200 milioni di visualizzazioni su youtube, oltre che un Grammy come migliore album dell’anno… Ma cosa ne è dei miei umanoidi preferiti? Che fine hanno fatto quei due ragazzetti genialoidi che tra auto tune, campionamenti e sintetizzatori, hanno adattato il mercato alle loro regole e senza compromessi contribuito alla storia della musica elettronica? Un po’ di vocoder qua e là per rendere robotica la voce di Pharrel Williams in un revival disco anni 70 dovrebbe farmi gridare al miracolo? Con questo non intendo dire che “Get Lucky” sia una brutta traccia, il problema è l’evidente costruzione a tavolino di una hit.
Ecco è questo che non mi va giù, i Daft Punk che fanno musica a tavolino, i Daft Punk che diventano (come se non bastasse) più famosi del Papa e che mostrano una certa supponenza, i Daft Punk che in pompa magna se ne escono fuori con un album iper-sofisticato che di loro ha ben poco se non nulla, i Daft Punk non più undeground, i Daft Punk che cambiano,i Daft Punk che cedono alle logiche di mercato, i Daft Punk che smettono di essere “sciocchi teppisti”, i Daft Punk che smettono di essere i Daft Punk.
Classe 1990. Di Urbino. Fancazzista di professione, studente di Giurisprudenza nel tempo libero.
La sua citazione preferita è: “Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.”(Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby)