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L’anima rockmalinconica di Loredana Bertè

Quarant’anni fa la pubblicazione di Traslocando, prodotto da Ivano Fossati

Appena rientrata da una lunga trasferta americana per l’incisione dello sfortunato LP Cerchi, Patty Pravo dichiarò di non aver ancora trovato la sua erede. Incalzata dai giornalisti, l’ex «ragazza del Piper» sibilò comunque un nome: Loredana Bertè. Un’investitura forse non casuale, data la comune familiarità con le provocazioni su e giù dal palco. Le quotazioni in picchiata dell’interprete di Pensiero stupendo all’inizio degli anni Ottanta erano una buona ragione per ipotizzare un passaggio di consegne tra due delle voci più caratteristiche della canzone italiana. Un successo dopo l’altro, l’artista originaria di Bagnara Calabra aveva sbancato le classifiche fin dalla seconda metà dei Settanta: il prodigio vocale di Sei bellissima (1976) e il singolare incontro con la melodia di Dedicato (1979) avevano anticipato la sterzata reggae di E la luna bussò (anch’essa datata 1979) e il successivo flirt con il funk di In alto mare (1980).

Tuttavia, l’esplorazione della scena musicale americana – intrapresa con la registrazione a New York di Made in Italy, pubblicato nel 1981 – annunciò un ulteriore cambio di passo: le atmosfere spiccatamente rock de La goccia, forse il brano più significativo del suo sesto album di studio, divennero il filo conduttore di Traslocando, licenziato da Bertè nell’autunno del 1982. La produzione di Michael Brauer e Ivano Fossati – che le avrebbe donato anche la hit estiva Non sono una signora – e la collaborazione con i Platinum Hook (Stephen Daniels alla batteria, Bobby Douglas alle tastiere, Victor Jones alla chitarra elettrica e la sezione fiati formata da Robin Corley, Kevin Jasper e Glenn Wallace) avvicinarono la cantante a sonorità più caparbie, di quando in quando smorzate dalle incursioni di trombe e sassofoni e da vaghe reminiscenze del suo passato reggae.

Il nuovo LP fu anticipato dall’autobiografica Non sono una signora, che rivaleggiò per settimane con la vacanziera Un’estate al mare, scritta da Franco Battiato per la voce non meno superba di Giuni Russo. Un incalzante giro di basso, contrapposto al dolce fraseggio delle tastiere, prepara il volo di Loredana: l’inizio quasi sussurrato, così perfettamente allineato alla vena criptica della prima strofa («La fretta del cuore/è già una novità/che dietro un giornale sta/E il male del giorno/è pochi chilometri a sud/del mio ritorno/del mio buongiorno»), la repentina ascesa (il «volo a planare» che congiunge la prima parte della canzone all’inciso), il ritornello per incendiare il cuore di chi ascolta. Non sono una signora – con cui Bertè conquistò a fine estate il premio Vota la voce, assegnato dai lettori di «Tv Sorrisi e Canzoni» – è un inno dedicato a tutte le donne che hanno avuto in sorte dalla vita fin troppi dispiaceri e sono perciò costrette a combattere ancora, senza sapere se il tempo sarà così galantuomo da ricompensare dolori e sofferenze vissuti in penombra.

Non sono una signora, la canzone-apripista di Traslocando

Altre pagine di vita da sfogliare in Per i tuoi occhi, composta dal paroliere Maurizio Piccoli: la carica di erotismo sprigionata dall’anonimo protagonista è capace di trasformare la passione di Loredana in un fuoco che non si può spegnere («Per i tuoi occhi cambia la luna/Per i tuoi occhi sono assassina»), ravvivato dall’incontro tra la chitarra elettrica e il sassofono nella parte conclusiva della canzone, in cui tuttavia si insinuano gli spettri dell’infelicità e del distacco («Per i tuoi occhi piango stasera/E con le scarpe mie più belle/Salgo fino al paradiso delle stelle/E mentre corrono le ore/La mia bocca si consuma a dire/amore»).

Nel suo viaggio oltreoceano, la cantante porta con sé quell’irrisolto conflitto interiore che sarà il filo conduttore della sua carriera: Stare fuori, anch’essa scritta da Fossati, è un’amara riflessione sulla solitudine che ci lascia ai margini dell’esistenza, obbligandoci a cercare un po’ di compagnia dentro di noi; I ragazzi di qui volge lo sguardo sui giovani che camminano «coi loro cuori chiusi» per le strade di una città-matrigna che abbaglia e illude. Lo stesso disincanto che attraversa le note e i versi di Stella di carta, la cronaca di un incontro notturno tra due anime agli antipodi che sembrano arrendersi alla forza dell’attrazione, fino a quando la protagonista non decide di andare «incontro alla notte» per ritrovare sé stessa: «Siamo di pasta diversa/Io seguo un altro destino».

Prima di interrogare di nuovo il cuore e le sue contraddizioni, Bertè si concede una fugace incursione nel suo recente passato con la morbida Traslocando, in cui la smaliziata Lucy ripensa ai mille amori consumati in fretta tra le mura di una casa oramai vuota. Gli echi del funk dominano la trascinante Notte che verrà, a cui collaborò anche la sorella Mia Martini: una galleria di spiriti liberi e «disperati amanti della luna» (inclusa la stessa Bertè, che rivendica ancora una volta la sua alterità: «Non sono una signora ti urlerò») a cui interessa scoprire se i sogni muoiano davvero all’alba di un nuovo giorno. C’è ancora il tempo per guardarsi allo specchio e riflettere sulle strane traiettorie del successo e della popolarità: Una, scritta dall’amico Renato Zero, disegna il confine tra fama e anonimato, seguendo in parallelo le vite di una celebrità e di una donna «che il suo nome in cartellone non ce l’ha».

Infine, un brano che somiglia alla trama di un film: la splendida J’adore Venise, uscita ancora una volta dalla penna di Ivano Fossati, racconta l’incontro clandestino tra due amanti in una stanza che odora di whisky e carta di giornale. Prima la complicità, poi la passione consumata al buio (in camera c’è una lampada oscurata da una calza di seta), quindi un rimorso reciproco: i due si scambiano qualche parola vicino alla finestra e intuiscono che non ci sarà un’altra notte da passare insieme. Fuori sta per sorgere il sole: non resta che chiudere la porta e andare via. Neppure l’estremo guizzo dell’immaginazione («Così calmo e seduto pareva proprio/Stessi ancora là») riesce a smorzare l’amarezza: l’amore è un’ombra che si dilegua e non si lascia più afferrare.

Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni