Ogni anno la Freedom House, la principale organizzazione non governativa internazionale nel campo della ricerca e dell’approfondimento sulle libertà politiche e sui diritti umani, pubblica un rapporto sullo “stato di salute” della democrazia nel mondo, avendo riguardo sia dei paesi di democrazia consolidata che dei paesi di democrazia più incerta. E il titolo dell’ultimo rapporto annuale, quello del 2019, non lascia spazio a fraintendimenti o interpretazioni bonarie: Democracy in Retreat, democrazia in ritirata. Una ritirata che non investe soltanto il piano dei diritti civili, politici e sociali, rispetto ai quali si avverte un’inversione di marcia, quanto soprattutto evidenzia il diffondersi di un sentimento di sfiducia generale e delusione nei confronti delle istituzioni democratiche classiche e di chi le incarna.
A ben vedere, la ritirata della democrazia era già preannunciata con largo anticipo a partire dalla seconda metà del Novecento dai principali studiosi della materia (Dahl, Chomsky, Huntington, Crozier). Cercherò di fare il punto della situazione, rispondendo ad alcune domande: in cosa hanno fallito le nostre democrazie? Quali sfide hanno perso? Ma soprattutto, quali sono le opportunità per un concreto risorgimento?
La sfida principale persa dalla democrazia è quella connessa alla gestione del fenomeno globalizzazione. In primis, con riferimento alla globalizzazione economica, in forza della quale il mercato economico-finanziario ha assunto dimensioni mondiali sfuggendo così alle capacità di previsione e di controllo degli Stati. Ciò ha comportato, da un lato, il capovolgimento del rapporto tra politica e economia, con prevalenza della seconda, la quale tende a sottrarsi sempre più alle scelte politiche del singolo stato, condizionandone, al contrario, le scelte di politica economica, fiscale e sociale (maggiore flessibilizzazione del lavoro, defiscalizzazioni, deregolamentazioni, liberalizzazioni continue fino a privatizzare anche l’erogazione dei servizi essenziali). Dall’altro lato si è registrato un appiattimento verso il basso nella tutela dei diritti economici e sociali, accompagnato da un preoccupante incremento delle disuguaglianze sociali che, determinando crescenti differenziazioni tra le varie fasce della società, amplifica il divario, incoraggia una distribuzione iniqua della ricchezza, innesca una conflittualità diffusa che mina alle fondamenta il mantenimento della coesione sociale. A rafforzare il senso di sfiducia comune hanno contribuito le decisioni adottate nei tavoli di cooperazione internazionale, in particolare quelli europei, che a seguito della crisi finanziaria del 2008 hanno imposto politiche di austerità e l’adozione di politiche fiscali che hanno finito per gravare, spostandone il peso principale, sui settori medio-bassi della popolazione: il cuore della democrazia.
L’altra sfida persa dalla democrazia riguarda la gestione della globalizzazione sociale. Come precisa R. Dahl, studioso americano tra i più grandi teorici della democrazia, “un livello medio di omogeneità culturale è favorevole alla crescita e al consolidamento della democrazia”. Questo livello di omogeneità non può essere raggiunto quando permangono nel tempo forme di discriminazioni, spesso tradizionali alla storia dei singoli paese, nei confronti di gruppi di cittadini che poi tenderanno a riorganizzarsi all’interno di movimenti per l’identità culturale per affermare e proteggere i propri interessi; inoltre, il fenomeno delle migrazioni di massa, spesso provocate dalle stesse forze democratiche, non è stato opportunamente affrontato né attraverso uno sforzo di cooperazione internazionale, specie tra i paesi europei, né, a maggior ragione, attraverso le opportune politiche di integrazione. D’altronde è stato più semplice guardare ai migranti come un profitto che come un doveroso costo da affrontare. Il prezzo pagato? La ri-scoperta di una porosità sociale che finisce per aggravare ulteriormente quello stato di frammentazione sociale prima descritto, promuovendo così, a vantaggio di pochi, una grande guerra tra poveri che valica gli stessi confini nazionali.
Probabilmente però una grande sfida persa sia dalla democrazia in generale che da noi attori in prima persona della democrazia stessa, è quella relativa alla formazione di un’opinione pubblica critica, informata e perciò consapevole. Non bastano le costituzioni, il metodo democratico del voto, i valori che costituiscono l’essenza dei principi fondamentali su cui si regge l’intero assetto democratico, tra cui pluralismo, eguaglianza e libertà: la democrazia è anzitutto un modello di pensiero e di azione prima di essere una forma di stato. Essa ci richiama ad una cittadinanza impegnata, attiva, che non ci esonera da una continua e costante opera di autoinformazione. La partecipazione infatti è effettiva solo quando è consapevole, e diventa consapevole solo quando è attiva: ciò implica non solo la presa d’atto di essere unicamente destinatari di diritti, ma soprattutto di una comune serie di responsabilità e quindi di doveri a quei diritti correlati.
Potremmo vedere quest’ultima constatazione come una sfida persa, un fallimento generazionale, ma in verità potrebbe essere la sola speranza in gioco per uscire da questa crisi. E il richiamo a un civismo attivo involge principalmente noi giovani che presto o tardi ricopriremo il ruolo di classe dirigente del paese. Se il futuro non è una promessa per noi potrebbe diventare una destinazione, un fine, una meta; ma potremo farlo solo a patto di imparare la grande lezione che le generazioni precedenti alla nostra non sono riuscite ad assimilare. Per oltre due secoli la battaglia della democrazia si è svolta fra le trincee tracciate dai sostenitori dell’égalité e della liberté, le sinistre e le destre storiche e globali. Forse siamo proprio noi a non dover dimenticare quel fraternité, negletto per secoli, trasfuso oggi nel concetto di solidarietà: l’unico cemento possibile sul quale si erge ogni società.
Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei Ventenni 16/03/2020