Lionel Messi é uno migliori talenti degli ultimi anni. Nato a Rosario, incarna lo stile di gioco più argentino: attacco, dribbling stretto (diverso da quello brasiliano, effettuato in allungo) e la palla incollata al piede.
Messi ha vinto tutte le competizione con il proprio club, il Barcellona. Basta un cenno perché i compagni gli passino la palla, ma questo non fa di lui un leader, risalta semplicemente la sua straordinarietà. É questa sua caratteristica che rende impossibile il confronto con altre stelle calcistiche. Forse, proprio il suo modo di interpretare il ruolo non gli ha (ancora) permesso di conquistare trofei con la Nazionale.
Fin dalle prime apparizioni con la maglia blaugrana, Messi é stato accostato ad un genio del calcio: Diego Armando Maradona, ultimo re plebeo di Napoli. Paragone non azzeccatissimo: sono troppe le differenze che, a posteriori, distinguono i due fantasisti.
Il ciclo catalano, inaugurato dall’intraprendenza di Rijkaard, proseguito con l’ossessivo equilibrio di Guardiola e conclutosi con le innovazioni di Luis Enrique, ha dominato quasi incontrastato per l’ultimo decennio. Una squadra formata dal mondano Piqué, Il capitano Puyol, il tornante Dani Alves, il mago Iniesta e il metronomo Xavi. Messi pur supportato da questi compagni, ha dovuto combattere la convivenza di altri fuoriclasse: Ronaldinho, Deco, Henry, Ibrahimovic, Eto’o, Villa e Sanchez. Ognuno di loro ha dovuto, in un modo o nell’altro, cedere campo e copertine alla Pulce di Rosario.
Ma tornando al nocciolo della questione, perché questo enfant prodige non può essere paragonato a monumenti del passato?
Prima di tutto il tempo. Se considerassimo il 10 blaugrana come l’ultimo uomo di un’evoluzione calcistica, troveremmo due uomini preistorici della sua “razza”: Enrique Omar Sivori e Diego Armando Maradona.
Entrambi giocavano in tempi e con tempi diversi: Sivori non era un velocista e non lo erano i difensori che saltava, come dei birilli, con la sua arma preferita: il tunnel irridente. Allarghi le ginocchia con un appena percettibile movimento verso l’esterno, per poi, come un fulmine, toccare la palla, facendola rotolare beffarda, tra le gambe dell’avversario incredulo e imbambolato. Non aveva bisogno di correre, Sivori. Erano gli avversari a corrergli appresso.
Maradona crebbe ad una velocità doppia rispetto a quella del “padre” Sivori. Non aveva grandi compagni di qualità alle spalle, vedi Bagni o Ferrara, perciò era costretto, senza però farlo pesare, a tornare indietro di qualche decina di metri per ricevere palla. Cosa che Messi tende ad evitare. Egli vive ad un ritmo doppio, quadruplo rispetto ai suoi predecessori, ma gioca anche in un calcio ben più pulito. Celebri sono i falli, quasi nessuno fischiato, che el Cabezon subiva e che ricambiava volentieri. Calci, pugni, gomitate, soprattutto nei derby con i concittadini granata, dove le minacce di morte e gli insulti erano di casa.
Anche el Pibe de Oro fu interprete di un calcio giocato all’estremo della correttezza. É difficile trovare una foto che lo ritragga con la divisa immacolata dal fango.
Sia Sivori sia Maradona solevano abbassarsi i calzettoni, quasi come un gesto di sfida, quando la partita iniziava a farsi piú nervosa. “Guarda, non ho alcuna protezione, ho la gamba scoperta, se vuoi rompermela questa é la tua occasione” sembravano dire al mediano di turno.
Un calcio ben diverso da quello in cui Neymar viene costretto a lasciare il campo per una ginocchiata di Zuniga o in cui una gamba alta di Medel su Messi creano il panico.
Ricapitolando: tempi diversi, calcio diverso. Infine, la terza differenza: il carattere.
Sivori era un bullo, presuntuoso e cattivo fino all’esasperazione. Uno dei celebri “angeli dalla faccia sporca”, che si distinguevano per i corpi apparentemente gracili, ma che nascondevano colpi e comportamenti al limite della correttezza. Il genio di San Nicolas vinceva con l’umiliazione, servendosi di una classe infinita, non cercando l’approvazione, bensì soltanto la gloria. Dovette andarsene alla Juventus a causa di Heriberto Herrera, il mister “operaio”. Il numero 10 vide con insofferenza le tattiche dell’allenatore tutto schemi e lavoro, si sentiva in gabbia. Se vogliamo, è l’esatto opposto di quanto successo a Messi con Guardiola.
Maradona, invece, fu più umile, meno vanitoso. Quando si rese conto delle proprie capacità non si nascose dietro a facili tentazioni (come accade sempre più frequente a molti giovani e come accadde a Maradona stesso verso il termine della carriera). Conquistò Napoli, ne divenne il Re, diede speranza e un nuovo idolo al popolo napoletano, dove leggenda e dogma si fondono e confondono. Capì che l’unico modo per potersi esprimere era prendere per mano i propri tifosi e trascinarli verso la gloria. Così fece. Non si limitò soltanto al regno partenopeo, decise di spingersi oltre, di conquistare il mondo con la propria nazione, di diventare un profeta in patria. Ecco dunque il Mondiale, ecco dunque la leggendaria cavalcata verso la impenetrabile (fino a quel momento) difesa inglese.
Sivori era un individualista, Maradona un leader. E Messi? Nessuno dei due. É un ragazzo umile (nei limiti che sponsor e media gli consentono), timido davanti alle telecamere e probabilmente incapace di sopportare il peso della propria fama. Messi appartiene ad un calcio dettato dai contratti, chiuso in un ambiente e in una squadra prostrata ai suoi piedi. Ha vinto quattro Palloni d’Oro, premio che si divide con Cristiano Ronaldo, simbolo del calcio lusitano.
Messi segna molto più di Sivori e Maradona, ma basta qualche colpo deciso per farlo sparire dalla partita, ultima la finale di Copa America, forse la più emblematica per quanto riguarda il suo rapporto con l’ Albiceleste. lì non c’é tempo per allestire una squadra secondo le proprie inclinazioni, lì c’é bisogno di fare la differenza, da collettivo, come Maradona, o individualmente, come Sivori.
Messi é Messi, basta paragoni.
E se bisogna per forza trovare un erede della dinastia di talenti argentini, io dico Carlos Tevez, individualista, ma trascinatore, a cui piace tornare a centrocampo per prendere palla e non evita gli screzi con gli allenatori (la litigata con Mancini ricorda quella tra Sivori e Herrera). Uno venuto dalle favelas con la testa europea ma il cuore argentino, proprio come i suoi due predecessori.
Torinese, laureato in giurisprudenza, mite di natura e polemista per vocazione. Amo il cinema quando cala l’oscurità, gli scalatori che salgono sui pedali e le allitterazioni che allettano gli allocchi. Scrivo, con solerte pigrizia, di sport.