Memoria e nostalgia di Italia 90 nel nuovo libro di Furio Zara
«Abbiamo vinto, anche se abbiamo perso». La sintesi agrodolce di un’estate ormai lontana che era iniziata con un sogno collettivo – una coppa da sollevare in cielo – ed è invece finita tra le lacrime, a undici metri dalla linea di porta. Eppure, a trent’anni di distanza, quel sogno è ancora vivo nel nostro immaginario: è fissato nel volto di un ragazzo palermitano che, all’improvviso, divenne il nostro eroe nazionale. È impresso nelle note e nei versi di un inno (Un’estate italiana, composto da Giorgio Moroder e interpretato da Edoardo Bennato e Gianna Nannini) che tutti noi abbiamo imparato ad identificare con le prime parole del ritornello: Notti magiche. La definizione simbolica di una stagione della nostra vita – l’estate mondiale del 1990 – che coincide con le frontiere della storia da attraversare: la Germania Ovest conquista il titolo mondiale tre mesi prima della riunificazione tedesca; la Jugoslavia precipiterà di lì a poco in una drammatica guerra civile, preceduta dagli scontri che si consumarono proprio su un campo di calcio tra tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado; l’Unione Sovietica è un vecchio impero ormai prossimo all’estinzione. E Italia 90 sarà anche l’ultima recita di un sistema di potere politico, economico e finanziario che – nel giro di un paio d’anni – affonderà sotto i colpi dell’inchiesta Mani pulite.
Le nostre notti magiche, l’ultimo libro del giornalista e scrittore Furio Zara pubblicato all’inizio dell’estate da Baldini + Castoldi, non è una semplice retrospettiva sulla festa mondiale e sui suoi protagonisti, dentro e fuori dal campo. È anzitutto una galleria di volti, personaggi, corpi, feticci da contemplare e ricordare. Dentro si possono riconoscere gli occhi spiritati di Salvatore Schillaci, il ragazzo cresciuto tra i palazzi del Centro di edilizia popolare di Palermo che – partito dalla panchina – conquistò il cuore degli italiani un gol dopo l’altro. La grazia dei movimenti di Roberto Baggio, il nuovo ragazzo d’oro del calcio tricolore che, appena cinque anni prima, sembrava sul punto di chiudere la sua carriera a causa di un terribile infortunio che subì quando vestiva la maglia del Vicenza, in serie C1. La feroce determinazione di Diego Armando Maradona, forse non irresistibile come quattro anni prima, quando condusse praticamente da solo la sua nazionale al titolo mondiale, ma ancora capace di lasciare il segno. Anche con le parole, come quelle che pronunciò prima della semifinale contro gli azzurri al San Paolo di Napoli, la sua seconda patria: «Gli italiani si ricordano dei napoletani ogni quattro anni. Trovo di cattivo gusto chiedere ai napoletani di essere italiani per una sera, dopo che per 364 giorni all’anno li trattate da terroni». El Diez uscì in trionfo dal suo stadio – che pure si era schierato in larghissima maggioranza con l’Italia allenata da Azeglio Vicini – ai calci di rigore, ma si scoprì improvvisamente umano e vulnerabile pochi giorni più tardi: il suo pianto inconsolabile alla fine della partita contro la Germania Ovest – oltretutto decisa da un rigore piuttosto generoso – mescolava rabbia e dolore. C’era soltanto dolore, invece, nelle lacrime di Aldo Serena, l’attaccante dell’Inter che sbagliò il rigore decisivo nella semifinale contro l’Argentina. C’era soltanto gioia, infine, nelle lacrime di François Omam-Biyik, semisconosciuto centravanti del Camerun che decise la partita inaugurale del torneo contro i campioni uscenti. Con i soldi del premio-partita, infatti, Omam-Biyik avrebbe potuto finalmente installare un dente d’oro al posto dell’incisivo che aveva perduto in uno scontro di gioco.
Le pagine del libro di Furio Zara restituiscono tutti i colori della festa mondiale, anche quelli più accesi e bizzarri. Per esempio, c’è la makossa, la danza tipica del Camerun eseguita dopo ogni rete da Roger Milla, l’attaccante dei Leoni d’Africa che si spinsero fino ai quarti di finale. E poi il mitico René Higuita, l’iconico portiere della Colombia che detestava stare in mezzo in pali al punto da spingersi spesso e volentieri in avanti. Anche troppo avanti, come quel pomeriggio al San Paolo in cui si fece soffiare la palla proprio da Milla e condannò i suoi alla sconfitta. Un episodio perfetto per l’ironia velenosa e beffarda della Gialappa’s Band, che quell’estate conquistò i radioascoltatori di tutta Italia – sintonizzati sulle stazioni del circuito Sper – con le sue cronache mordaci e fuori dalle righe, anticamera di un fenomeno televisivo – Mai dire gol, in onda su Italia 1 dal novembre del 1990 – che portò allegria e leggerezza in un mondo fin troppo abituato a prendersi sul serio. L’allegria, certo, ma anche le ombre: Italia 90 fu simbolo di malaffare e corruzione, sprechi e malversazione. Alla fine dell’evento, si scoprì che la spesa complessiva per l’ammodernamento degli stadi e la costruzione delle altre opere strategiche era aumentata dell’85%. L’onda lunga del «decennio da bere», gli anni Ottanta della spesa pubblica fuori controllo, ci spinse a fare le cose in grande. Con questi risultati: lo stadio Delle Alpi di Torino abbattuto diciotto anni dopo la fine del Mondiale; la stazione ferroviaria di Farneto, a pochi passi dall’Olimpico, aperta per soli quattro giorni; un albergo da 300 camere a Ponte Lambro, nella periferia di Milano, mai inaugurato e infine demolito nel 2012. Per tacere di impianti scomodi e completamente inadeguati alle esigenze del calcio contemporaneo.
Italia 90 è dunque lo specchio fedelissimo di un Paese che ha vinto anche se ha perso, come ci ricorda l’autore: innamorato dei suoi ricordi, orgoglioso delle sue imperfezioni, spesso maldestro, geniale a tempo perso. È l’Italia che arrossisce davanti ai suoi errori per poi dimenticarsene, magari «inseguendo un gol». Come accadde un’estate di tanti anni fa.
Già pubblicato su L’Altravoce dei Ventenni – Quotidiano del Sud 24/08/2020
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Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.