Era solo
il 2015 quando nel codice penale compariva per la prima volta l’istituto della
non punibilità per particolare tenuità del fatto. Si cavalcava a quei tempi
ancora l’onda “svuotacerceri” inaugurata nel 2010, dopo che la CEDU aveva
condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti negli istituti
penitenziari. Anni di favor
libertatis si sono avvicendati mediante la predisposizione di un
sistema di contrasto al sovraffollamento carcerario e deflattivo del carico
giudiziario. In sostanza un sistema garantista, sempre più di favore per l’indagato/imputato/condannato,
con istituti in suo soccorso prima, durante e dopo l’accertamento della sua
colpevolezza.
Così, mentre l’ex Ministro dell’Interno violava i diritti umani nei centri di
permanenza per i rimpatri e parlava solo ed esclusivamente di sicurezza, nella
Nazione del paradosso si assisteva all’abbassamento delle soglie della
sospensione condizionale della pena, all’attenuazione delle condizioni per
accedere alla detenzione domiciliare, alla predisposizione di un sistema che
permette l’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie del colpevole
e, tra le tante, veniva introdotto l’art. 131 bis c.p.
Il 131 bis
disciplina una causa di non punibilità, ovvero una situazione nella quale il
reato c’è ed è stato accertato in sede giurisdizionale che il soggetto lo ha
commesso, che quando lo ha fatto era capace di intendere e di volere e che non
sussistevano in quel momento cause di giustificazione (es. legittima difesa,
adempimento di un dovere ecc), ma ciononostante il legislatore ritiene
possibile “chiudere un occhio” per una serie di valutazioni di politica
criminale generale, condivisibili o meno.
Decidere di non punire sottintende, dunque, l’accertamento del fatto e
della colpevolezza dell’imputato: il reo, sebbene non punito in ambito penale,
subirà comunque le conseguenze negative della sua condotta, come la condanna al
risarcimento del danno in sede civile o eventuali sanzioni amministrative
connesse all’illecito penale.
Ai sensi dell’art. 131 bis spetta al giudice, attraverso alcuni parametri
più o meno rigidi, valutare se emanare una sentenza recante la non punibilità.
La discrezionalità concessa al giudice, come è giusto che sia, non è totale:
egli deve comunque rispettare alcune precise disposizioni dettate dal
legislatore allo stesso art. 131 bis c.p. La causa di non punibilità può essere
concessa sono nel caso in cui ricorrano tutte le seguenti condizioni:
a) il reato per il quale si procede è punito con la pena detentiva non
superiore nel massimo a cinque anni e/o con la pena pecuniaria;
b) l’offesa è di particolare tenuità;
c) il comportamento non risulta abituale.
I caratteri della tenuità dell’offesa e dell’abitualità del comportamento devono
essere dedotti dell’entità del danno o del pericolo provocati alla persona
offesa dal reato e dalle modalità in cui esso è stato posto in essere, secondo
i normali parametri che il giudice utilizza ogni qualvolta deve quantificare la
pena di un imputato. Accanto alle normali regole, all’art. 131 bis il
legislatore si preoccupa di disciplinare altri requisiti e divieti di
concessione. Ad esempio, si prevede che non possa ritenersi tenue l’offesa quando
l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato
sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della
vittima o quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate la morte o le
lesioni gravissime di una persona.
Si tratta
di un istituto di cui si è fatta ampia applicazione nelle aule di giustizia
italiane dal 2015 ad oggi. La casistica è ampia e molti sono stati i dibattiti
sorti in merito al suo coordinamento con altri meccanismi processuali. A
distanza di soli 5 anni, il 28 ottobre 2019 è stata assegnata alla 2ª Commissione
Giustizia la proposta di legge per l’abrogazione in toto dell’articolo 131-bis
del codice penale.Più
di una conclusione può dedursi da tutto ciò.
L’art. 131 bis ha offerto ai giuristi molti spunti di
riflessione e in poco tempo ha scomodato più volte la Cassazione, ma in nessuno
di questi casi è risultato essere un istituto sbagliato e fuori posto nel
sistema penale italiano. Certo, essendo un istituto nuovo è normale che occorra
capire bene il suo ambito di applicazione, onde evitare di aprirlo troppo dove
non si potrebbe/dovrebbe o negarlo laddove invece sarebbe opportuno concederlo.
Altrettanto vero è che molti dibattiti si sarebbero potuti evitare se, in sede
di redazione, maggiore attenzione fosse stata data ad alcuni aspetti
problematici usciti subito fuori in sede di primissima applicazione. È la
riprova di quanto il legislatore di oggi sia disorganico, frettoloso e
pressapochista. Viene da chiedersi come mai norme redatte prima della
Costituzione sono ancora in piedi e rimangono di un’attualità a tratti
emozionante e, al contrario, nel 2019 per aggiungere un articolo al Codice
Penale succede il pandemonio perché il legislatore è palesemente confuso.
Questo repentino cambio di idee che ha portato alla proposta di abrogazione del 131 bis a distanza di così poco tempo dimostra, ancora una volta, che negli ultimi anni in politica non è esistita una linea comune nemmeno riguardo la materia criminale, dove invece la certezza del diritto è imprescindibile. La conoscenza della linea tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che non lo è, la consapevolezza delle precise conseguenze della propria condotta illecita rappresentano i presupposti della libertà di autodeterminazione quale diritto fondamentale di ogni individuo in un sistema moderno. Cambiare continuamente le carte in tavola – e cambiarle male, aggiungerei – non aiuta nessuno e, soprattutto, è uno spreco di tempo e risorse che potrebbero essere meglio impiegate in altro.