Gli attivisti scelgono quali cause supportare grazie al loro potere d’acquisto
L’attivismo assume caratteristiche intersezionali fin dalle prime azioni collettive e la sua capacità di essere trasversale è stata evidente fin dalle prime manifestazioni del movimento Black Lives Matter della scorsa estate. La conversazione che è nata, sia tra gruppi di solidarietà che tra studiosi del fenomeno, ha portato a una serie di riflessioni sulla capacità di sensibilizzare su “una categoria per volta”. Quello che è emerso ci mostra una generazione di giovani che non solo non vuole dedicarsi a una causa sola, ma vede inoltre impossibile, per i tempi moderni, dedicarsi ai diritti civili in modo settoriale.
Lottare per i diritti lgbtq+ e i diritti delle donne impone porsi domande sulla lotta di classe e a interrogarsi, quindi, sul sistema in cui si vive e le disuguaglianze che genera. Le aziende, soprattutto in ambito pubblicitario, hanno annusato l’interesse per le cause sociali e le usano come veicolo per i loro prodotti. Questo ha portato a coniare termini come greenwashing e pinkwashing, per indicare quando un’azienda, per cavalcare l’onda, si discosti da quella che è la sua reputazione e crei una narrazione che li vede come attenti all’ambiente (nel caso del greenwashing) e ai diritti lgbt (nel caso del pinkwashing) pur non sostenendo nel concreto le cause.
Il consumatore viene portato a pensare che comprando da tale brand sosterrà una certa causa. Causa che viene trattata dall’azienda come una moda passeggiera e, anzi, vuole spingere il cliente a comprare facendo leva sul senso di colpa di chi è sensibile alle tematiche. Tuttavia, nonostante ci sia la tendenza a cercare di seguire uno stile di vita “etico” – o comunque il più etico possibile – quando si tratta di shopping, risulta difficile mantenere una certa integrità e coerenza.
Ecco che, quindi, nel momento in cui si vuol fare attivismo, si deve prendere coscienza del fatto che in un sistema capitalista non si possa essere coerenti, ma si possa imporre tramite azioni mirate un cambiamento, seppur minimo e seppur finalizzato alla sola imposizione di un precedente. Il fatto che ora le marche, i brand, non possano più fare a meno di schierarsi politicamente – anche solo per pubblicità – ci permette di “scegliere” da che parte stare. D’altronde, se la coerenza non la si può rispettare in autonomia, la si può sempre influenzare grazie al proprio potere d’acquisto.
Come? Con l’arte del boicottaggio.
Il modo migliore per imporre il cambiamento contro un sistema di disuguaglianze è colpire gli unici beni a cui le aziende badano: i soldi e la reputazione. Quando nel 2013 il presidente dell’omonima azienda Guido Barilla ha detto “Mai uno spot Barilla con coppia gay” le comunità erano insorte, invitando i sostenitori dei diritti civili a boicottare l’azienda, scoraggiando l’acquisto dei loro prodotti in favore di altri che invece si fossero espressi favorevolmente alle cause della comunità lgbtq+.
Tuttavia, se il boicottaggio scoraggia soltanto l’acquisto dei beni, le azioni che invitano a un consumo critico e all’acquisto da realtà che abbiano il coraggio di schierarsi o promuovere alcuni ideali rientrano nel buycott (dal verbo inglese to buy “comprare” e boycott “boicottaggio”). Ad oggi, in occasione del rinnovato interesse per la questione israelo-palestinese, l’esigenza di seguire e supportare aziende che rispecchino i propri ideali è diventata impellente. Le reazioni, d’altronde, non sono affatto tenui e volte al compromesso: appena Bella Hadid, tra le modelle e influencer più richieste al momento, ha mostrato solidarietà alla causa palestinese, pare che la casa Dior abbia reciso il suo contratto e interrotto la campagna che la vedeva come nuovo volto del marchio. A tale proposito, per chi non riuscisse a star dietro a queste esternazioni e voglia essere sicuro di comprare unicamente da marche che sostengano le cause interessate, è stata sviluppata la app Buycott che, tramite la scannerizzazione del codice a barre, è in grado di indicare quali aziende supportano le comunità che si vogliono sostenere.
Dove ci viene imposta una coerenza impossibile, è consolante illudersi di poter costruire il proprio mondo ideale a suon di azioni collettive. Un’utopia, certo, ma che si tenta continuamente di mettere insieme mattone su mattone tramite i mezzi che abbiamo a disposizione – soprattutto internet – la cui pervasiva presenza rende intollerabile una visione apolitica e ignorante di ciò che ci circonda.
Articolo già pubblicato su Il Quotidiano del Sud – l’Altravoce dei Ventenni il 24 maggio 2021