Sarebbe bellissimo iniziare questo pezzo dicendovi che sin da quando ero bambina desideravo fare la scrittrice, ma sarebbe una bugia. Ho passato varie fasi, dalla cassiera alla professoressa, dalla ballerina alla studiosa. Poi, un giorno, alle scuole medie, è arrivato un commento che mi ha cambiato la vita, cha accesso in me una fiamma, luminosa e potente. È stata quasi un’illuminazione, come quella di Paolo sulla via per Damasco. Il giorno del tema, ci venne chiesto di descrivere un caro oggetto della nostra infanzia e perché fosse prezioso per noi. Raccontai della mia bambola di pezza, Marianna, dalla salopette rossa, la fronte alta e gli occhi azzurri. La mia professoressa, dopo averlo corretto, mi disse che la mia scrittura sembrava essere viva, che le pareva di averla vista davvero quella bambola dai capelli gialli fatti di lana e il viso impastato di colla. Mi illuminai, ero felicissima. Forse in quel momento, realizzai che potevo avere dentro di me, qualcosa di speciale.
Continuavo a coltivare sempre di più la passione per la lettura e, pagina dopo pagina, iniziai a scrivere. Non ricordo un momento preciso, non credo neanche ci sia stato davvero il momento in cui tutto è iniziato. Di certo, ho avuto molti diari segreti alle cui pagine non affidavo solo i resoconti delle mie giornate, ma anche delle idee. Nel mio computer, c’è da sempre una cartella che si chiama “Scrittura” in cui sono racchiusi anni e anni di tentativi, di sogni. Racconti, protoromanzi, riflessioni, semplici frasi. Nella mia adolescenza ho provato a scrivere di tutto, persino romanzi a quattro mani (più di uno!), lasciando che quella passione diventasse una possibilità.
La mia inclinazione alla letteratura è sempre stata evidente, e non perché fossi davvero incapace nelle materie scientifiche (e questo è un dato di fatto anche oggi), ma c’era qualcosa, nei libri, che mi faceva sentire completa. Con la scrittura, ho capito che il mio mondo era quello, che mi bastava chiudere gli occhi, riordinare le idee e tradurre i miei pensieri in parole scritte. Ho scritto per nottate intere, fino a farmi venire gli occhi rossi e infiniti mal di testa, ma ne è sempre valsa la pena. Ho scritto sul retro degli scontrini nei bar di Stoccolma o Amsterdam, ho riempito i miei libri di pensieri e annotazioni, ho progettato trame su trame e ho sognato di poter leggere il mio nome nella vetrina di una libreria. Ho coinvolto i miei amici nella strutturazione delle storie, ho lasciato che mi parlassero e fantasticassimo insieme per ore sotto le stelle durante la notte di San Lorenzo o in videochiamata in quarantena. Ho lasciato che la scrittura diventasse una parte inscindibile, che iniziasse a rappresentare chi sono io e come mi approccio al mondo. Così, adesso sono quella che scrive i biglietti di auguri, i messaggi profondi, che trova le parole le giuste e riesce a buttare giù una bella frase in quasi tutti i momenti.
Ma, per me, la scrittura non è solo questo. È qualcosa di molto più complesso, come tutte le relazioni. C’è amore, di quelli potenti e smisurati, una venerazione e completa assuefazione; ma c’è rancore e risentimento, perché spesso la scrittura non mi appoggia. Anzi, mi tormenta con delle armi da cui è difficile difendersi. Una di queste è il tempo, spietato nemico di tutti, anche della creatività. Durante gli anni di università, scrivere mi era impossibile perché non avevo abbastanza tempo e, quando ne avevo, la pagina bianca mi fissava per ore. È stato molto frustrante, non riuscivo ad uscirne. A lungo, i miei scritti sono stati semplici incipit che rimanevano sospesi, in attesa. Non ho mai trovato il modo di continuarli neanche oggi, perché se è vero che il tempo è un’arma, spesso la scrittura consta di un momento e, se lo manchi, lo perdi inevitabilmente. La scrittura prevede pazienza, costanza, tanta dedizione e chiaramente tempo. E tanto, tanto desiderio di raccontare, sé stessi e gli altri.
Per rimettermi in gioco, ho anche frequentato un corso, dieci lezioni con esercizi, incontri con scrittori, letture ad alta voce degli elaborati e serata di reading finale. Imbarazzo a non finire, insomma. Il corso mi è servito a constatare che il desiderio di scrivere c’era, non si era spento con gli esami e lo studio, ma dovevo impegnarmi e non piangermi addosso. Oltre a questo, il corso mi è anche servito a vantarmi del fatto che tra i miei compagni ci fosse Gazzelle, ormai paladino dell’indie e dei karaoke. Ma questa è un’altra storia.
Comunque, molto lentamente e con tanta fatica, le mie pagine di Word, delle moleskine e degli spazi bianchi dei libri hanno ricominciato ad essere ripopolate da idee, trame, personaggi. Quando ero molto più piccola, scrivere mi serviva per sognare ed estraniarmi, così i miei protagonisti mi assomigliavano tutti (o almeno io volevo somigliare a loro), vivevano una vita a cui aspiravo, parlavano nel modo che mi piaceva, avevano il finale che avrei voluto avere io. Mi riusciva facile parlare di cose che non capivo, perché potevo immaginarle. Crescendo, però, quelle situazioni che affrontavo solo su carta sono diventate reali e, inevitabilmente, più difficili da descrivere. Il grado di immedesimazione è diventato più alto e, con esso, l’impossibilità di dar voce a certi sentimenti e stati d’animo. Ho realizzato che parlare della vita vera mi risultava immensamente più complicato. Temevo di banalizzare o di risultare patetica. Mi mancava un piccolo pezzo, e cioè che certe situazioni, certe consapevolezze e passioni non possono essere banali solo perché sono comuni a tutti e che, molto spesso, il fatto che non lo siano sta nel fatto che sono inventate.
Adesso, è solo attraverso la scrittura che riesco a liberarmi degli attimi più bui e dolorosi, a parlare d’amore, gratitudine, pienezza. La scrittura, per me, è una cosa terribilmente seria. È arte, letteratura, grammatica, sintassi. E più scrivo, più sento di doverla preservare, come se fosse compito mio difenderla quando penso che non sia praticata nel modo giusto. Ma sapete qual è la verità? È che non c’è un modo giusto di vedere la scrittura, ognuno di noi la sente in modo diverso, la realizza in modo unico, ed è questo il suo dono più bello: la diversità. Ogni penna attraversa il foglio in maniera irripetibile e lo fa comunicando modi sempre nuovi modi di sentire il coraggio, il timore, la debolezza. Il mio problema è che spesso ho paura di usare la mia, di penna, perché temo i giudizi, primo fra tutti il mio, il più severo. Ho sempre il timore che la scrittura mi renda nuda e riconoscibile, e nel lavoro letterario è necessario distanziarsi da “chi siamo”.
Però, alla fine, non posso fare a meno di essere la ragazzina che scrive sui pezzi di carta, sugli angoli dei giornali, nei diari segreti, nelle mail, in diretta su Skype. Non riesco proprio fare a meno di comprare taccuini, di scrivere sui retri degli scontrini, nelle note del telefono, di sognare un romanzo tutto mio che abbia un inizio, uno sviluppo e una fine. La scrittura è per me una compagna, un rifugio e un’amante esigente, un’aspirazione e arma di difesa. È il mio modo di stare al mondo e di interpretarlo. È troppe cose che non riesco a spiegare. La scrittura è la mia canzone contro la paura.