La mia amica Luisa si laurea. Breve intervista sull’ottimismo

Qualche giorno fa la mia amica Luisa si è laureata. In Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, come me. Nella stessa aula della stessa università. Aveva la mia relatrice come correlatrice. I miei amici come tifoseria. La mia collega preferita come collega preferita. Probabilmente la stessa toga che hanno messo a me, ancora intrisa del sudore mio e di tanti giovani angosciati (non credo la lavino). Una tesi della stessa lunghezza, più o meno. E basta, più niente in comune. Perché Luisa, a differenza mia e di chiunque abbia sudato sotto la toga prima di noi, si è laureata con un entusiasmo tale che nelle foto sembrava una faccina di WhatsApp, quelle che usi quando sei troppo felice e non ti si può dire niente. Io lo so che non era soltanto gioia, che non era soddisfazione pura, ma ottimismo. E mentre stappava goffamente bottiglie di spumante e gongolava ascoltando i brindisi che le dedicavano, ho pensato: adesso la intervisto, e le chiedo come mai è così ottimista. L’ho fatto.

Se ce la faccio, ne intervisto altri. Non neolaureati, ma appenalaureati, ovvero laureati da un giorno massimo due. Dopo l’ottimista spero di trovare un pessimista, un depresso, un già lavoratore, uno che vive all’estero, uno che vuole fare il pittore ma si sta laureando in biochimica. Che bella rubrica, #ilaureati. Se ce la faccio, sempre.

Intanto ecco Luisa, 24 anni, dottoressa in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali con 110 e lode. Calabrese. Amica mia.

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Luisa, come stai?

Mi fanno male i piedi.

Puoi fare di meglio.

Eh, mi sento stanca ma felice. Ancora non ho realizzato.

Quindi non avverti differenze?

Sì, più o meno. Sento di aver raggiunto un obiettivo, il traguardo verso cui erano indirizzate tutte le cose che ho fatto fino a pochi giorni fa.

Se ti dico la parola “dopo” cosa ti viene in mente?

Che mi spettano i conti con la vita reale.

E’ una cosa che temi?

Sì e no. Dipende dalle fasi. A un passo dalla laurea, quando ero ancora nel “prima”, ero felice ma timorosa. Di questo “dopo”, intendo. Ora che ci sono, nel “dopo”, sento di dovermi mettere in gioco per poterlo affrontare.

Cosa significa, per te, mettersi in gioco?

Provare qualsiasi opportunità che possa incontrare sul mio cammino. E non arrendermi, anche se so già che riceverò tanti no e tante porte chiuse.

Hai già una prospettiva precisa, un’ambizione?Anche un sogno va bene.

L’obiettivo generale – che costringe a studiare già da domani, praticamente – è provare il concorso per il dottorato di ricerca. Mi piacerebbe rimanere nell’ambiente universitario. Ma nel frattempo sto provando tante altre cose.

Tipo?

Concorsi vari. Ne pubblicano tanti… Ho fatto anche la domandina per il servizio civile. E poi non si sa mai, a parte il dottorato spero di fare altre esperienze in questi anni di gioventù [dice proprio gioventù, nda].

Ho premesso che sei una persona ottimista. Dimostriamo perché. Cosa ti distingue da chi non lo è?

Cosa mi distingue? Beh è vero che quando c’è un problema e gli altri si scoraggiano io dico “non vi preoccupate, sediamoci e risolviamo”. Nel senso che cerco di vedere sempre il lato positivo delle cose, è una caratteristica che mi aiuta ad affrontare molte difficoltà. Capita ovviamente che anche io mi perda d’animo. Ma poi mi dico: “Calmati, Luisa. La soluzione, la cosa bella, si trova sempre”.

E come si pone, questo tuo ottimismo, rispetto a quel “dopo” di cui parlavamo poco fa, quello che – lo hai detto tu stessa – ti spaventava? Sembra una provocazione ma non lo è: come fai ad essere ottimista sul futuro a due giorni dalla laurea?

Sono ottimista perché ho la fortuna di conoscere tanti altri giovani che hanno faticato molto per trovare la loro collocazione nel mondo lavorativo però alla fine ce l’hanno fatta. Magari sono partiti dai call center, magari sono stati stagisti, probabilmente il loro percorso sarà stato accidentato e non privo di momenti negativi, ma alla fine hanno realizzato i loro sogni. Molti ragazzi che conosco hanno fatto fronte comune, fondando associazioni, piccole aziende, start-up, dalle quali è nata, nel lungo tempo, un bella realtà. Il problema è che non se ne parla. Il bello delle cose non risalta più. E di bello ce n’è.

Su questo spirito propositivo ha influito la tua esperienza all’estero? Raccontaci com’è andata.

Sì. Ho partecipato al bando Erasmus Placement e ho lavorato sei mesi a Bruxelles presso un’azienda che si occupava di europrogettazione. Sì, penso che abbia influito. O il contrario, non lo so. Forse l’ottimismo ha aiutato la riuscita dell’esperienza. Era la mia prima esperienza all’estero, e chi c’è passato lo sa: è una cosa splendida, ma può non essere facile. Gente nuova, posti nuovi, un ufficio, una lingua che non è la tua. Sei mesi sono tanti. In ogni caso viverla con entusiasmo ti fa crescere tanto.

Tre parole sul Belgio. Le prime che ti vengono in mente.

Birra. Multiculturalità. Parco.

Parco?

Essì, ci sono tante aree verdi.

Ok. E invece tre parole sull’Italia?

Cibo. Bella gente. Positività.

Sono quattro parole, non tre.

“Bella gente” non vale?

No, vale. Cosa ti mancava dell’Italia quando eri in Belgio?

Innanzitutto non pensavo che l’Italia potesse mancarmi così tanto. Ma ho scoperto che è vero quello che si dice riguardo alla lontananza: quando vai via apprezzi tutto quello che davi per scontato. Le cose che hai sotto gli occhi e di cui nemmeno ti accorgi. Stare lontana mi ha fatto rivalutare le mie attività, il mio paese, il paesaggio. Il mio impegno coi ragazzi [Luisa è impegnata nell’Azione Cattolica, nda].

E cosa credi che manchi all’Italia di quello che in Belgio hai visto, imparato, apprezzato?

Il rispetto che le persone hanno per il territorio, per le aree verdi. E poi le cose più banali, ma comunque importanti. La raccolta differenziata è una cosa seria, lì, proprio sentita. E poi il rispetto per le regole: non esiste che si prenda un autobus senza avere il biglietto. Ma non è una caratteristica della popolazione belga. Forse anche, non lo so. Ma è come se fosse il luogo ad educare. Anche gli italiani, in Belgio, si comportano in maniera impeccabile.

Le solite cose, insomma. Nient’altro?

Naturalmente il dinamismo politico. In Belgio, grazie all’UE, la politica è vivace, influente. Non credo che in Italia, nemmeno stando a Roma, si possa percepire la stessa cosa.

Se ti dico “disagio”, cosa pensi?

Tristezza.

Se ti dico “fallimento”, invece?

Coraggio.

Tre parole che ti vengono in mente se pensi a Luisa fra dieci anni.

Felice. Mamma. Sindaco. Del mio paese.

Quanto sono concrete, tu che sei un futuro sindaco, le difficoltà dei giovani laureati? Chi è ottimista, come te, ha una chance in più o lo “spirito giusto” non c’entra niente?

Non c’entra quasi niente. Credo che i giovani italiani siano molto preparati. All’estero sono molto apprezzati. Il problema è la condizione sociale, ancora una volta “quel che si dice”. Anche in famiglia. Ad esempio un fattore predominante è il pessimismo degli adulti. Dire “Mio figlio non ha futuro in Italia” significa demoralizzare, condizionare. Molti italiani si piangono addosso. Ma la sfiducia genera sfiducia.

Questa sfiducia, tu dici, ha un focolaio sociale. Ma il virus da chi parte? Dal mondo del lavoro o da quello dell’istruzione, dell’Università?

Da entrambi.

Quindi è il lavoro che manca, almeno nella connotazione di lavoro a cui eravamo abituati, o l’istruzione non basta a renderci competitivi?

Penso che sia una questione che riguarda entrambi gli ambiti che tu hai citato. Nel senso che le cose belle, per come la vedo io, possono realizzarsi soltanto grazie alla sinergia tra diversi elementi. Quindi se l’università o l’istruzione ultimamente hanno abbassato il tiro, o se il mondo del lavoro non è accogliente come dovrebbe è perché manca questa sinergia. Io sogno un’università in cui tutti i corsi abbiano dei tirocini, anche brevi, che possano offrire l’opportunità naturale di affacciarsi al mondo del lavoro. Sono idee semplici. Dovrebbero pensarci le istituzioni: la politica non può mancare quando si tratta di rafforzare queste sinergie.

Cosa ne pensi della Buona Scuola?

La buona scuola è nata con buoni presupposti. L’iniziativa del Governo di ascoltare le varie anime, i vari protagonisti della Scuola, è stato un buon punto di partenza. E questo punto di partenza ha alzato le aspettative nella popolazione ma anche nei soggetti direttamente interessati. Poi, però, il lavoro finale ha lasciato un po’ a desiderare. Quello che spero ora è che si possa ripartire da quel buon inizio e che si continui ad ascoltare la gente, perché solo un governo che ascolta la gente può fare delle buone riforme.

Qual è il titolo della tua tesi?

I figli di immigrati nati e cresciuti in Italia: nuove prospettive.

Il colore della tua tesi?

Giallo.

Non ti vergogni?

No. Non la fa quasi nessuno, anche i tipografi mi sconsigliavano. Ma credo che il giallo sia un colore troppo vivace per non trasmettere vera positività. E poi mi hanno chiesto così tante volte “Non ti vergogni?” che da vezzo è diventata una sfida.

Cosa pensi dei Master?

E’ sempre una questione di spirito. Se lo si fa per disperazione, per mancanza d’alternative, non serve a niente. Se è mirato, perché no?

Ok. Siamo quasi alla fine. Con la storia del sindaco mi hai confermato che resterai in Italia?

Sì.

E in Calabria?

Sì. Quando dico che voglio restare in Italia mi riferisco alla Calabria. Certo, non escludo niente. Amo viaggiare, fare nuove esperienze. Potrei stare fuori anche per dieci anni, che ne so. Ma sempre per tornare. A Stignano, il mio paese, o in qualunque altra parte della Calabria.

Qual è il più bel regalo di laurea che hai ricevuto?

Il più bello di tutti? Un dvd di Masha e Orso. Da parte della mia amica Ilaria.

Per concludere, un mantra di buona fortuna da te che sei positiva. Che ce n’è tanto bisogno.

Forza e coraggio.

Ancora una volta, puoi fare di meglio.

Devo dire qualcosa di profondo? Questo è quello che mi ripeto ogni volta che combino qualche guaio o devo fare qualcosa di importante. Respiro profondamente e mi ripeto “Forza e coraggio”. Ecco un buon consiglio: respirare profondamente.

E se uno ha l’affanno?

Ni’. Basta anche solo pensarlo. Forza. E coraggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nicola H. Cosentino
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