Un giovane motociclista investito in mezzo a una pista (il povero Jason Dupasquier) e un calciatore famoso (Christian Erkisen) che stramazza al suolo. Entrambi seguiti dalle telecamere anche quando la sorte ha deciso di giocare con le loro vite. Entrambi indifesi davanti al nostro sguardo che si moltiplica e diventa video virale, messaggio da condividere sui social network, chiacchiericcio. Così com’è accaduto alle vittime della tragedia della funivia del Mottarone, immortalate dalle telecamere a circuito chiuso prima dello schianto fatale e infine consegnate in pasto ai siti di informazione e ai telegiornali, ciascuno dei quali – in un altrettanto macabra esibizione di muscoli – ha rivendicato l’«esclusiva» sulla morte filmata in diretta.
I media non sono nuovi a violare i confini di ciò che, fino a qualche tempo fa, consideravamo riprovevole da mostrare in tv: tutto cominciò esattamente quarant’anni fa con la diretta Rai a reti unificate delle operazioni di soccorso per il salvataggio di Alfredino Rampi a Vermicino. Un microfono calato nel pozzo fece ascoltare a milioni di telespettatori la voce sempre più flebile del bambino, intorno al quale fu allestito uno squallido circo che, visto oggi, sembra una sinistra anticipazione degli spettacoli del dolore che popolano in egual misura TG e contenitori pomeridiani. Quel che è peggio, però, è la gara a mettere le mani avanti:
«Questo video contiene immagini che possono urtare la vostra sensibilità»,
come se mostrare gli ultimi istanti di vita di 14 persone sulla cabina di una funivia o l’infarto che ha colpito Eriksen siano episodi da mettere sul piatto di una ipotetica bilancia, così da stabilire quale dei due possa turbare maggiormente la nostra sensibilità.
Ancora più imbarazzanti sono state le risposte dei direttori dei telegiornali e dei siti di informazione alle proteste – una volta tanto circostanziate e ponderate – di telespettatori e utenti: «Abbiamo soltanto esercitato il diritto/dovere di cronaca» e, nel caso della tragedia di Stresa, «Era giusto mostrare queste immagini perché sono una testimonianza diretta di ciò che era accaduto».
A questo punto, è legittimo chiedersi perché i telegiornali e i siti di informazione non siano stati attraversati dal dubbio che quei fotogrammi fossero in realtà una negazione del diritto di cronaca. Per carità: nessuno pretende improvvisi slanci di umanità o tardivi esami di coscienza dai giornalisti, abituati per mestiere a rincorrere le notizie e più che mai simili ai soldati della Fortezza Bastiani descritta da Dino Buzzati ne Il deserto dei Tartari. Più semplicemente, si trattava di prendere una posizione netta e inequivocabile: da una parte il pudore, dall’altra la vergogna.
Ancora una volta, i professionisti dell’informazione non hanno avuto dubbi.
Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.