Poche sorprese, molto mestiere: Sanremo vince senza osare
Il terzo mandato di Amadeus e Stefano Coletta nel principato di Sanremo passerà alla storia per aver cercato di stabilire un compromesso tra la formula di successo dell’edizione 2020, che ha puntato apertamente sulla contaminazione tra musica e spettacolo – al punto da inseguire e cavalcare deliberatamente le polemiche, come nel caso dell’uscita di scena di Bugo – e la sperimentazione portata avanti 11 mesi fa, quando il Festival divenne una zona franca nell’Italia spaventata dall’emergenza sanitaria. Il capitolo 72 della rassegna sanremese ha mescolato sapientemente questi elementi, inserendoli nella cornice di uno spettacolo televisivo che – complice la ritirata a reti unificate della concorrenza – ha monopolizzato l’attenzione del pubblico, annunciando persino la fine dell’emergenza sanitaria con la discussa (ma indovinatissima) esibizione di Checco Zalone. «E le canzoni?», direte voi. L’evento festivaliero ha forse nascosto la complessiva debolezza di un cast che, nonostante alcune significative eccezioni, ha cercato di accontentare più il pubblico occasionale che l’ascoltatore più attento. L’idea di abiurare quasi completamente alla coraggiosa operazione del 2021, quando il Festival tagliò i ponti con la tradizione, ha prodotto una sostanziale retromarcia. Scegliete voi stessi come definirla: compromesso, inversione a U, bagno di realtà (giustificato dagli ascolti in ribasso dell’edizione pandemica). In ogni caso, ancor prima di conoscere il nome del vincitore, possiamo già dire che questo Festival ha restituito una fotografia sfocata della nostra canzone: nessuna perla destinata a rimanere nella storia, ma tante canzoni che oscillano tra la sufficienza e la mediocrità. Certo: non vi è motivo di dubitare che le radio e le piattaforme di streaming premieranno i brani più sensibili al richiamo della melodia e della ballabilità. Tuttavia, appare assai difficile che il duetto Mahmood-Blanco, così come l’ottima prova di Elisa o i riempipista di Dargen D’Amico, La Rappresentante di Lista e della cordata Rettore-Ditonellapiaga possano avere lo stesso impatto di Zitti e buoni dei Måneskin – non per nulla premiata anche oltreconfine – e di Musica leggerissima di Colapesce e Dimartino. Cosa ci ha lasciato la grande festa dell’Ariston e, al tempo stesso, cosa non ha funzionato?
LE CERTEZZE – In un Festival che ha scelto di girare al largo dall’inventiva e dall’originalità del recentissimo passato, Brividi di Mahmood e Blanco e O forse sei tu di Elisa hanno agevolmente sbaragliato la concorrenza, pur non avendo i crismi del capolavoro o della rivelazione. Più che altro, colpisce l’abilità con cui i primi sono riusciti a rielaborare il tema amoroso in una veste nient’affatto convenzionale, che pure non sfugge ai classici topoi sanremesi (la passione non corrisposta, i conflitti, le parole d’amore pronunciate a mezza bocca, le emozioni che logorano e aprono ferite difficili da suturare). Dal canto suo, Elisa ha ritrovato la vitalità che l’aveva consacrata al grande pubblico nel 2001 con una canzone delicata come il volo di una farfalla, depurata dai toni stucchevoli che avevano appesantito il suo repertorio più recente.
I TORMENTONI – Da quando gli è stato assegnato il compito di guidare la nave del Festival, Amadeus ha sempre puntato sull’appetibilità delle canzoni per le radio e per i servizi di streaming. Anche quest’anno, c’è chi si prepara a sfondare fuori dall’Ariston, in testa Dargen D’Amico. Il produttore che ha lanciato Fabri Fibra e Marracash, mettendosi anche al servizio di Annalisa e Fedez, ha rigenerato la dance degli anni Novanta con un brano (Dove si balla) che è un inno alla libertà ritrovata («Che brutta fine le mascherine») in un panorama di macerie. Impegno ed evasione, dunque: la stessa ricetta de La Rappresentante di Lista. Che, tuttavia, non è riuscita ad eguagliare l’exploit di Amare: Ciao ciao segue una melodia volutamente ammiccante, mescolando il funk e il pop sofisticato di Rettore, ma il messaggio “politico” della canzone («Mentre mangio cioccolata in un locale/Mi travolge una vertigine sociale/mentre leggo uno stupido giornale/In città è scoppiata una guerra mondiale») non graffia e non spiazza. A proposito di Rettore: la vitaminica Chimica – interpretata con l’esordiente Ditonellapiaga – sceglie un registro volutamente provocatorio («Delle suore me ne sbatto totalmente/E non mi fare la morale») per raccontare il desiderio femminile senza troppi giri di parole, con tanto di beffarda parentesi romantica («È una questione di/trovare quello giusto»).
I CLASSICI – Spariti o quasi i cantautori (con l’eccezione ammirevole di Giovanni Truppi, a cui non avrebbe tuttavia fatto difetto un testo più levigato per la pur deliziosa Tuo padre, mia madre, Lucia) e i gruppi (rappresentati da Le Vibrazioni, bersagliati dalla critica nonostante Tantissimo sia una canzone tutto sommato dignitosa), il conduttore e direttore artistico del Festival ha deciso di dare credito ai veterani del Festival, trascurati nei primi due anni della sua gestione. Il confronto con gli habitué e i novizi di Sanremo – di cui parleremo più avanti – ha scatenato facili ironie, ma non dimentichiamo a chi si rivolge questo evento, né lo spazio che occupa nel panorama mediale italiano. Se Iva Zanicchi non è riuscita a oscurare il ricordo dell’esibizione di Orietta Berti – che ha paradossalmente rilanciato la sua immagine proprio grazie al Festival – Gianni Morandi ha riesumato i ricordi della sua giovinezza in bianco e nero, quando andava a cento all’ora e aspettava la sua morosa spedita dalla mamma ad acquistare il latte. Tuttavia, l’eterno ragazzo della canzone italiana ha avuto il merito di rendere credibile la mediocre Apri tutte le porte, donatagli incautamente da Jovanotti. Massimo Ranieri aveva tutto da perdere con uno dei pochi brani estranei al cliché amoroso: Lettera di là dal mare è un’elegia potente dell’emigrazione, con cui è riuscito a far dimenticare le difficoltà incontrate nel corso della prima serata.
I RITORNI – Tornato al Festival a quattro anni d distanza dalla vittoria divisa a metà con Ermal Meta, Fabrizio Moro è tornato a fare ciò che gli è più congeniale: scrivere una canzone d’amore. Tuttavia, l’ispirazione che si può rintracciare nell’ormai remota Eppure mi hai cambiato la vita è andata completamente perduta: Sei tu si arrampica su versi che, nel tentativo di apparire ricercati, precipitano nell’involontariamente comico («Prendi se vuoi la mia rabbia in affitto»: perché non metterla in vendita, a questo punto?). Un anno dopo la sopravvalutata Glicine, Noemi è tornata sul palco con l’ambiziosa Ti amo non lo so dire, costruita su una melodia in levare che è un passo in avanti nella carriera della cantante romana. Tuttavia, l’interpretazione e il testo (scritto per lei da Mahmood) non appaiono all’altezza delle intenzioni. Lo stesso discorso vale per Giusy Ferreri, riaffacciatasi in Riviera dopo cinque anni: con un’impronta sottilmente rétro, Miele è un serio tentativo di lasciarsi alle spalle (definitivamente, si spera) le indigeste hit estive. Per quanto sia difficile considerare Emma una cliente abituale dell’Ariston (questa è stata la sua terza partecipazione in gara), la sua Ogni volta è così esplora nuovi orizzonti dal punto di vista musicale, affrancandosi dalla melodia tradizionale per abbracciare disinvoltamente l’elettropop. Anche in questo caso, però, intenzioni e interpretazione non procedono di pari passo. Se la dolente Inverno dei fiori di Michele Bravi si arrocca su un’orchestrazione fin troppo sostenuta nel ritornello che contrasta con le movenze ipnotiche delle due strofe, Ovunque sarai di Irama è un deciso passo indietro rispetto all’eclettica La genesi del tuo colore con cui si era messo in luce – seppure da remoto e con la benevola complicità dell’autotune – nell’ultima edizione del Festival. Achille Lauro, infine: salito da tempo sulla Rolls Royce, ha smarrito il tocco magico degli esordi e finanche la capacità di provocare, per citare le parole dell’«Osservatore Romano».
I GIOVANI – La generazione Y si è presentata a Sanremo in forze: Aka 7ven, Sangiovanni, Matteo Romano hanno tra i 19 e i 21 anni. Pochi, a nostro giudizio, per sfidare un palco che è stato talvolta generoso con i cantanti usciti dai talent show (Marco Mengoni, la già citata Emma). Ne è valsa la pena? No, a giudicare dai brani portati in gara. Eppure, i primi due – lanciati da Maria De Filippi – incontreranno il gradimento dei giovanissimi, benché il talento di entrambi sia tutt’altro che cristallino. I loro fratelli maggiori (Rkomi, Tananai, Yuman, a cui potremmo aggiungere Highsnob e Hu) hanno confermato l’inadeguatezza del girone unico. Non si tratta di creare riserve nelle quali confinare gli esordienti e i giovani, spesso considerati alla stregua di tappabuchi da spostare a piacimento nella scaletta di ciascuna serata. Più semplicemente, si tratta di definirne con chiarezza lo status: è sufficiente la partecipazione a Sanremo Giovani o la popolarità su TikTok – come nel caso di Romano – per meritare una convocazione tra i big? Se il regno di Amadeus si protrarrà oltre il 2022, questa sarà una delle principali questioni da affrontare.
Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.