Quando a fine gennaio iniziarono a circolare le prime notizie relative al Covid-19, l’opinione pubblica si divise tra cospirazionisti, temerari e paranoici. A parte gli ultimi, tutti ritenevano si trattasse di un qualcosa di innocuo per noi, o perché troppo lontano, o perché paragonabile ad una semplice influenza stagionale. Eppure dalla sera alla mattina ci siamo resi conto che quel nemico invisibile, che appariva così distante e inarrivabile, in realtà era già tra noi. Stava circolando già da mesi e la situazione, specialmente al Nord, era più grave di quanto potessimo immaginare. Ci siamo trovati a dover fronteggiare una pandemia, forse la più grande sfida del nuovo millennio, e quando ci siamo resi conto di cosa stava accadendo, tutti noi, anche i più temerari, siamo stati pervasi dalla paura. Il lockdown è iniziato ufficialmente la sera del 9 marzo, ma di fatto già dal giorno prima la maggior parte del paese era segregata in casa.
Come dimenticare le scene della notte tra sabato e domenica in cui migliaia di persone presero d’assalto le stazioni per tornare al Sud, al sicuro, pur consapevoli di poter favorire così la diffusione del virus e di mettere a serio rischio la salute pubblica.
Mettiamoci nei panni di quelle persone: non mi sento di additarli come irresponsabili, ricordiamoci che la nostra risposta alla paura è spesso irrazionale. Un po’ come in quei documentari in cui si vede un uomo costretto a fronteggiare un animale feroce: l’uomo sa che la cosa migliore da fare in quei frangenti è restate immobile, eppure inizia a correre. È la paura che prende il sopravvento e detta quel comportamento. Motivo per cui non mi sento di rinfacciare nulla a quelle persone, seppur sia molto probabile che senza quei rientri i casi di coronavirus nel meridione sarebbero stati di gran lunga inferiori.
L’emergenza ha compresso la maggior parte dei nostri diritti. Ormai ci siamo abituati a queste restrizioni e le accettiamo consapevoli che dovremmo conviverci per molti mesi ancora. Al momento non si sa quando potremo ritornare alla normalità: c’è che ipotizza ci vorrà l’anno nuovo, chi – tra i più ottimisti – ritiene che con il caldo il virus svanirà, ma la verità è che al momento non vi è alcuna certezza. Lo sconforto è tanto, per tutti.
E nello sconforto il mio pensiero va soprattutto a chi, in questo momento di enorme difficoltà tanto psicologica quanto economica, si trova a dover affrontare l’emergenza lontano dalla propria casa e dalla propria famiglia. Si tratta di tutte quelle persone che per motivi di studio o di lavoro si trovano a vivere fuori e che oggi vorrebbero tornare a casa. Si tratta di quelle persone che, nonostante l’enorme paura, hanno mantenuto il sangue freddo e non sono scappate come tutti gli altri, quelle persone che hanno dimostrazione grande senso civico e responsabilità, che hanno sacrificato il proprio Io per la sicurezza altrui.
Mi rifaccio all’espressione utilizzata dal preside del Liceo Classico Telesio di Cosenza, Antonio Iaconianni, che ha lanciato nei giorni scorsi una petizione attraverso la quale chiedeva l’intervento della Governatrice della Regione Calabria Jole Santelli e del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: se c’è un diritto che non può essere compresso in questi giorni è il “diritto di tornare a casa”. Come ci siamo messi nei panni di chi è scappato, ora mettiamoci nei panni di chi è rimasto: non è facile vivere e affrontare questa emergenza in una casa che non è la propria, non è facile vivere soli e lontano dai propri cari e non è facile neanche a livello economico quando non puoi lavorare a causa dell’emergenza o quando sei uno studente e i tuoi genitori – anch’essi costretti a casa – non possono mandarti soldi.
Comprendo i timori della Governatrice e capisco pure che se consentisse a tutti di rientrare il rischio di una nuova ondata di contagi sarebbe considerevole, ma una soluzione deve essere trovata, “anche e soprattutto per dare loro un ulteriore insegnamento” – tornando alle parole del Preside – “ossia che l’onestà, il merito, il rispetto di tutti e tutto paga sempre… diversamente è come insegnare scorciatoie disoneste e dire che i furbi hanno sempre ragione!!”.
Consentire il rientro indistintamente a tutti senza alcuna reale motivazione e dietro una semplice autocertificazione sarebbe rischioso e potrebbe dare il là ad un vero e proprio esodo, ma, ad esempio, la soluzione potrebbe essere il rilascio di un’autorizzazione da richiedere alla Prefettura competente dietro indicazione di specifica motivazione e nella quale si indica il mezzo di trasporto con cui si scende o con cui il genitore va a prendere i propri figli. In questo modo le autorità potrebbero contenere e controllare attivamente il fenomeno. Inoltre tale autorizzazione offrirebbe un ulteriore vantaggio, difatti non sarà necessario, come accadeva prima che i confini regionali venissero “chiusi”, che chi scende si autodenunci ai fini dei 14 giorni di quarantena obbligatoria. Seppure non vengano controllati al momento dell’ingresso nel territorio regionale, le autorità sapranno già del loro rientro e saranno così in grado di verificare eventuali violazioni. Tuttavia in merito è necessaria una considerazione di non poco conto: chi si è dimostrato rispettoso della legge, responsabile e consapevole del rischio ha desistito nonostante la voglia di tornare a casa fosse tanta, perché mai dovrebbe infrangere la quarantena obbligatoria e mettere a repentaglio la salute pubblica? Non penso vi sia un simile rischio.
Che sia attraverso il rilascio di un’autorizzazione, che siano direttamente le singole Regioni ad andare a prendere i loro cittadini sparsi al Nord sulla falsariga di quanto ha fatto la Farnesina con gli italiani all’estero, ma spero che una soluzione venga trovata al più presto, che venga premiato il modo in cui queste persone hanno affrontato l’insorgere della crisi e che venga finalmente tutelato il diritto a cui noi meridionali in particolar modo siamo indissolubilmente e storicamente legati: il diritto di tornare a casa.
Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud – l’Altravoce dei ventenni di lunedì 27/04/2020
Osvaldo, 23 anni, Cosentino D.O.C. e studente romano di giurisprudenza da ormai 5 anni. Ha lasciato la sua città ma non è tra quelli che la rinnegano, anzi, è visceralmente legato ad essa, tanto che, appena può, torna sempre a casa. In poche parole: terrone e fiero di esserlo. Appassionato di sport - sopratutto del suo lato romantico - il suo cuore è da sempre RossoBlù. Gli piace viaggiare e scoprire cose nuove, ama la natura e in particolare il mare. Si dice sia critico e un po’ polemico. Non gli piacciono le cose facili, odia gli opportunismi e le ingiustizie in generale.