GRAVE IL SINDACO OCCHIUTO: Guardia di Finanza accerta la colpevolezza del Sindaco, accusato di riciclaggio

Mia nonna mi ripeteva che le brutte notizie non vengono mai da sole. Ed aveva ragione. Con la morte di Checco Zalone in un incidente stradale qualche anno fa, il bambino morto istantaneamente dopo il richiamo del vaccino e con Fabrizio Frizzi che tra le sue ultime parole sembra aver gridato ad un governo Cinque Stelle, il nostro mondo, quello fatto di colori, gesti esagerati, arte, pizza, alta moda e “la vita è bella”, sembra pian piano sfiorire. Ma del resto, il popolo di Facebook, Instagram e Twitter, non è più quello che una volta amava sporcarsi le mani con l’inchiostro del giornale appena stampato. Scovare la fake news, così, diviene ancora più difficile, ma ormai gli stessi social che utilizziamo ci danno la possibilità, anche se in maniera ancora blanda, di limitare la diffusione di notizie non impossibili, ma poco veritiere.

Facebook, Social Media per eccellenza, con i suoi 2 miliardi di utenti attivi, produce un quantitativo di circa 50.000 fake news riconosciute, ogni anno che passa. È un po’ come guardare oggi al nostro pianeta, più rifiuti difficilmente riciclabili produciamo, più lo smaltimento diviene complicato. Ma questo social, al contrario delle leggi internazionali, è diventato molto diretto e letale nei confronti di chi pubblica queste informazioni, chiudendo pagine e bloccando i profili personali. È vero, ciò non basta e c’è chi sicuramente dirà che la pubblicazione dipende da persona in persona, ma permettetemi di dire che anche io ho avuto timore alla notizia della morte di Will Smith di fronte la sua abitazione, per non si sa quale ragione. Ed è questo ciò che dovrebbe smuovere le acque: cercare di capire se vi sono limiti alla pubblicazione e diffusione stessa di queste false notizie. Siamo noi, infatti, primi difensori del nostro sapere, perché abbiamo la possibilità di non condividere, rimanendo perciò inermi, ma anche di segnalare l’errore e fare in modo che la verità, anche se con estrema difficoltà, possa venir fuori.

Nel 2016 è iniziato l’iter di cambiamento e valutazione, specialmente sul social bostoniano, attraverso i c.d. fact-checking, ovvero la scelta di soggetti autorevoli impegnati nel controllo delle informazioni che migrano da profilo a profilo. Nel 2018, inoltre, vi è stato un aumento di queste figure professionali, favorendo una notevole riduzione delle notizie false, di circa l’80%.

Innumerevoli altri aggiornamenti sono stati effettuati, dall’analisi di foto e video ritenuti poco chiari, al doppio controllo del lavoro dei fact-checking, i quali, essendo umani, possono avere il diritto di sbagliare (o forse no). Ulteriore metodologia utilizzata, riferita precisamente alla monetizzazione derivante dalla condivisione compulsiva della notizia, è l’apprendimento automatico, che da la possibilità di individuare più facilmente la fake-news, rallentando la sua diffusione, riuscendo a rendere ancora più smart il mezzo di controllo. Evidenti obiettivi sono stati raggiunti, ma ciò ancora non determina una corretta eliminazione di ciò che oggettivamente è da reputare non vero.

Sembra però, che il piano si stia delineando al meglio e che la strategia possa avere effetto anche a breve termine. Ma siamo sicuri dell’effettività della stessa? I numeri, visti ad occhio nudo danno risposta positiva, eppure i nostri vicini di casa, familiari, amici di scuola, non sembrano sorbire alcuno effetto da questi occulti miglioramenti. Non esiste in tal caso un demiurgo che pedissequamente possa normare sulla condivisione o una madre che continuamente possa punire per l’inesatta informazione. Esiste e resiste la voglia irrefrenabile di ricevere like, indipendentemente dal messaggio pubblicato, mentre scompare la voglia di informare e condividere per piacere e/o indignazione.

Non esiste più filtro tra ciò che si pensa perché si conosce e ciò che in realtà viene pubblicato. Si è persa quella voglia di fare giustizia e di battersi per ciò che risultava non-giusto. Sicuramente, bisogna sottolineare, che ogni mezzo di comunicazione ha i propri rischi, ma se il comunicare una verità convive con l’estrema difficoltà di condividere concretamente la vera verità, possiamo definirci davvero meritevoli di informarci ed informare riguardo alla nostra vita, ai nostri interessi ed al nostro mondo? Mi sbilancio e rispondo che non saremmo degni di pubblicare, condividere ed informare. Come si “scrolla” il dito sul nostro schermo alla velocità della luce, con stessa rapidità si legge e ci si informa, senza fare quella domanda che i bambini, invece, amano tanto: “perché?”. Del resto però, come abbiamo il diritto positivo di poter condividere ciò che vogliamo, dovrebbero essere create delle limitazioni alla nostra “troppo libera” libertà, che possano perciò punire chi ha preferito fermarsi all’apparenza, senza approfondire, scegliendo, volontariamente, di non dire la verità. Ogni click ed ogni ripubblicazione necessita di certezza, di un bisogno recondito di aggrapparsi alla realtà, senza necessariamente rischiare di ricadere in quel costante turbinio di notizie che confondono e non mettono alla luce nulla, se non una oscura e celata bugia.

Ho visto gente per strada urlare alla verità, pretendendo di far valere i propri diritti e quelli degli altri, tra canti, gesti inconsueti e voglia di cambiamento, ma oggi, purtroppo, su quel terreno che noi chiamiamo internet, sopravvive un unico motto, a quanto pare imprescindibile: Like, ergo sum!

Luigi Sprovieri
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Un ragazzo quasi trentenne, dal sapore adolescenziale ed una vita piena di sogni e immaginazione. Concretezza ritrovata negli studi in legge, ma stemperati dalla voglia di esplorare il mondo del marketing e dei social media. Instagram addicted, produttore convulsivo di storie, grande ascoltatore ma ancor di più, grande parlatore. Cresciuto a libri classici e America's Next Top Model, appassionato di Harry Potter e fan sfegatato dei consigli della Volpe del Piccolo Principe. È un mix tra sarcasmo e serietà, tanto da non essere sicuri di quello che stia succedendo. Ha studiato e lavorato negli Stati Uniti e sottolinea, sempre, che non vedeva l'ora di tornare in Italia.