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Freddie Mercury, somebody to love

La magia di una voce che non si è mai spenta davvero

«Sono nato con quattro incisivi in più. Più spazio nella bocca, più estensione vocale».

Questa sfrontata dichiarazione di intenti – pronunciata da un giovane studente dell’Easing Art College di Londra, Farrokh Bulsara, all’inizio del film Bohemian Rhapsody – non è solo l’atto di nascita di una magnifica carriera: queste parole rivelano anzitutto l’eccezionalità di un personaggio che – con la sua inimitabile parabola umana ed artistica – attraversa mirabilmente le epoche, le generazioni, i gusti musicali, mette d’accordo i genitori che si lasciarono sedurre dalla sua voce, dalla sua capacità di trascinare le folle – la pietra angolare resterà sempre l’esibizione allo stadio di Wembley in occasione del Live Aid, 13 luglio 1985 – dal suo desiderio di libertà e autenticità (che raggiunse il suo apice con il videoclip di I Want To Break Free), e i figli che lo hanno imparato a conoscere grazie agli album o alle raccolte antologiche dei Queen o al film biografico di Bryan Singer.

Eppure, a trent’anni dalla sua morte, la grandezza di Freddie Mercury – un nome d’arte che sembra uscito dai confini dell’Universo – risalta ancora di più se si osservano le tante metamorfosi vissute dai Queen: l’infatuazione con il glam e l’hard rock degli esordi, la fortunata contaminazione con le atmosfere della lirica di A Night At The Opera (1975), in parte replicate anche nel successivo A Day At The Races (1976), l’apertura di credito ai sintetizzatori e alle sonorità funk di The Game (1980), il flirt con l’elettronica di The Works (1984). Mutazioni di suono e di segno che si possono rintracciare anche all’interno dei singoli album, a cominciare da A Night At The Opera: la chitarra di Brian May asseconda e sottolinea le impennate vocali di Mercury, graffiante e feroce in Death On Two Legs – un’aspra invettiva contro il primo manager del gruppo, Norman Sheffield – accattivante e persino solare in You’re My Best Friend, di nuovo ruvida in Sweet Lady, calda e delicata a un tempo nella struggente Love Of My Life.

Se cercate una definizione di eclettismo, poi, la risposta è istintiva: Bohemian Rhapsody è probabilmente il più coraggioso tentativo che si ricordi nella storia nella musica leggera di ridisegnare i confini della canzone classica, affrancandola dalle classiche etichette di genere per consegnarla direttamente all’empireo delle opere d’arte. L’introduzione corale, la voce del leader e il pianoforte a dominare la prima parte del brano, un breve assolo di chitarra prima di una geniale epifania sonora: Mercury si unisce a May e al batterista Roger Taylor sui sentieri dell’opera, mescolando citazioni colte (Scaramouche, una delle maschere tipiche della Commedia dell’Arte seicentesca, il Figaro rossiniano, Galileo Galilei) e sottili riferimenti autobiografici. Ancora la chitarra al galoppo, infine l’epilogo sull’asse piano-voce: nessuno aveva osato e oserà mai tanto in una sola canzone.

Eppure, lo sforzo creativo che diede vita a Bohemian Rhapsody non esaurì la voglia di sperimentare dei Queen, che aggiornarono la lezione di A Night At The Opera con due album molto diversi tra loro: se A Day At The Races può essere considerato la naturale prosecuzione del capolavoro del 1975 – di cui si possono rintracciare gli echi in brani come The Millionaire Waltz e Somebody To Love – il discusso Jazz riportò il quartetto sulle strade di un rock caparbio (come nella torrida Fun It, quasi l’anticamera di Another One Bites The Dust), ma sempre capace di poderosi guizzi: Fat Bottomed Girls (un omaggio divertito al… fondoschiena femminile), Bicycle Race e soprattutto Don’t Stop Me Now, una cavalcata incandescente come il suo interprete.

«Una stella cadente che attraversa il cielo» e ci lascia ogni volta a bocca aperta.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni