In uscita il mini-album d’esordio Blalalala, tra elettronica e melodia
«Trovare un punto tra due parallele/due rette imperfette/sbagliate/ma pur sempre alleate»: la ricerca di un equilibrio impossibile per le regole della geometria, una sfida lanciata alla razionalità attraverso la musica. Meglio non cercare etichette di comodo per definire un’interprete come Elisabetta Perversi: da una parte, le riletture dei classici della musica italiana e internazionale con il Secondary Street Trio, dall’altra un percorso da solista in bilico tra la melodia classica (La macchina del tempo, il singolo d’esordio che le è valso una citazione sulla rivista della Scuola autori di Mogol) e l’impronta elettronica dei brani più recenti del suo repertorio, l’ironica Senza navigatore e l’eterea Facciamo finta, prodotta da Leonardo Falasco. Suoni e pulsioni che convivono in Blalalala, l’EP uscito il 14 gennaio sulle principali piattaforme di streaming: 5 canzoni con cui la maestra di scuola milanese prova a stabilire un contatto (un’«alleanza», per parafrasare i versi di Facciamo finta) tra due mondi musicali solo in apparenza estranei l’uno all’altro.
Il suo ultimo singolo può essere considerato un punto di svolta nella sua carriera sia dal punto di vista musicale, sia sul piano produttivo. Esiste un punto di contatto tra Facciamo finta, Senza navigatore e La macchina del tempo?
«A differenza dei primi due brani, che ho prodotto con la collaborazione del mio pianista (Andrea Spilinga, ndb), Facciamo finta guarda decisamente all’elettronica. Naturalmente, i testi delle canzoni nascono dal mio vissuto: di conseguenza, il mio stato d’animo attuale non può essere paragonato a quello che ha ispirato La macchina del tempo. Sul piano stilistico, ciò che accomuna questi brani è l’ispirazione al cantautorato, che è senz’altro in cima alle mie preferenze di ascolto. Tuttavia, sono particolarmente affascinata e incuriosita dall’elettronica e dalle sonorità contemporanee».
Negli ultimi anni, la musica indie (sempre che si possa davvero definire indipendente) ha strizzato l’occhio all’elettronica, rileggendola in una chiave vagamente nostalgica. Dove la collocherebbe nel suo orizzonte artistico e musicale?
«Pur avendo affidato ad altri la produzione dei brani che scrivo, ho comunque individuato alcuni riferimenti precisi che hanno lasciato il segno anche sulla composizione e sulla stesura dei testi. Per quanto sia legata a maestri della canzone d’autore come Lucio Dalla e Giorgio Gaber, ascolto con attenzione tutto ciò che è nuovo e, più in generale, le musiche che appartengono ad altre culture. In ogni caso, non c’è un genere musicale specifico nel quale mi riconosca: se la musica è fatta bene, mi piace ascoltarla… tutta».
Lei ha mosso i primi passi nel mondo della canzone con un trio – tuttora in attività – che propone un repertorio incentrato soprattutto sulle cover. Qual è il lascito di questa esperienza nel suo percorso da solista?
«Per la verità, sono sempre stata abituata ad esibirmi con i gruppi: a questo proposito, trovo che condividere la propria passione con gli altri sia una ricchezza tanto quanto interpretare canzoni che non sono tue. Con il Secondary Street Trio, poi, abbiamo portato avanti un progetto autonomo con brani inediti in inglese. Da quando ho iniziato a lavorare ai testi dei miei singoli, però, ho sentito l’esigenza di scrivere in italiano anche per il trio, perché mi sono resa conto che la lingua italiana mi aiutava a esprimermi meglio. Posso dire che queste due esperienze, ancorchè differenti tra loro, alla fine si sono incontrate, pur riconoscendo che suonare e cantare con un trio acustico sia tutt’altra cosa».
Facciamo finta è una canzone che, con una certa ricercatezza formale, ricostruisce la fine di un amore. Sia nelle strofe, sia nel ritornello si avverte una certa amarezza, che raggiunge il suo apice quando lei descrive la protagonista della canzone con «due fette di salame per oggi»: un sotterfugio per nascondere ai suoi occhi l’imminente naufragio della sua storia. Viene da chiedersi che cosa resterà di un sentimento così doloroso quando arriverà domani.
«Secondo me, ogni esperienza – sia essa positiva o negativa – serve per crescere e per maturare. In questa canzone, ho voluto raccontare quella sensazione che ho provato quando ti rendi conto che una relazione non sta andando nella direzione giusta, ma rimani comunque bloccato dall’affetto che provi per l’altra persona e, pertanto, fai fatica ad ammettere a te stessa che quel sentimento si sta esaurendo. In ogni caso, sono convinta che si guadagni sempre qualcosa persino quando una relazione è finita e devi fare i conti con la fatica della solitudine, a patto che si faccia ciò che riteniamo giusto per noi e per gli altri».
Senza navigatore mette a nudo le debolezze e l’incoerenza del protagonista, che aveva espresso l’intenzione di sposarsi, rimangiandosi però la promessa non appena vede avvicinarsi l’altare. Com’è riuscita a interpretare il tema della fuga dalle proprie responsabilità in una chiave tanto leggera e divertita?
«È evidente che questa canzone sia riferita a una persona un po’ spaventata che ha preferito non affrontare la realtà. Comunque, Senza navigatore non parla soltanto di questo aspetto: non a caso, mi sono immedesimata nell’atteggiamento di coloro che promettono ma non mantengono la parola data e non credono davvero a quel che pensano. La critica diretta a questa persona era in realtà rivolta anche a me stessa, perché sono la prima che non tiene fede alle promesse che fa. Dunque, ho scelto questo registro ironico in quanto è davvero faticoso stare insieme e volersi bene davvero».
La macchina del tempo, con cui ha partecipato nel 2019 alla finale del Tour Fest organizzato da Mogol, segue la traiettoria dei rimpianti, che esplodono con forza nel ritornello. Non sarà il caso di liberarsene per non cadere in una malcelata nostalgia del rimpianto?
«Ho scritto questa canzone in un momento nel quale mi sono chiesta se non fosse il caso di tornare indietro e di rifare determinate scelte. A lungo andare, però, ho realizzato che questa sensazione non corrispondeva al vero, perché a ciascuno di noi capita di sbagliare. Di conseguenza, ho pensato che certi rimpianti fossero necessari per attuare un vero cambiamento. Ammetto a me stessa di aver provato a mettere in discussione la mia personale macchina del tempo, se non altro per provare a modificare qualcosa che non mi stava bene. Tuttavia, sono arrivata alla conclusione che non tutti i rimpianti hanno un’accezione così negativa».
Elisabetta, a metà gennaio è uscito il suo primo EP. Le canzoni del mini-album sono più sbilanciate sull’elettronica oppure sono attraversate dall’ispirazione cantautorale e melodica de La macchina del tempo?
«Sono presenti tutte e due le anime della mia musica: il pianoforte è una costante soprattutto nei pezzi con un’orchestrazione più semplice. Ciò non toglie che l’intero EP sia caratterizzato da una forte impronta elettronica, che considero il valore aggiunto di ciascuna traccia. Quanto ai contenuti, posso dire che le cinque canzoni dell’album corrispondono a cinque pilastri della mia vita che hanno a loro volta sollevato grandi interrogativi. Questi brani sono stati una sorta di terapia con la quale ho provato a scavare dentro il mio vissuto per tirare fuori alcune domande. Tuttavia, non ho ancora trovato le risposte che cercavo».
Alla luce delle trasformazioni innescate dalle piattaforme digitali, con un’espansione smisurata dell’offerta e delle modalità di ascolto, e della contrazione del mercato discografico tradizionale, quanto è cambiato il modo di fare musica, secondo lei?
«Non c’è dubbio che, negli ultimi tempi, il mondo della musica sia stato investito da grandi novità che hanno riguardato lo stile, le sonorità, persino il modo di cantare. Al di là dei gusti, credo che ognuno debba seguire ciò che sente di esprimere. A mio avviso, è limitante proporre qualcosa di nuovo soltanto perché si è convinti che possa funzionare, anche perché – prima o poi – tutto torna. Pertanto, non mi spaventa l’idea di continuare ad ascoltare un certo tipo di musica che è ancora capace di comunicarti qualcosa, anche se quelle canzoni non si ascoltano più».
Nonostante le tante promesse fatte negli ultimi due anni, il mondo della musica è stato trattato come l’ultima ruota del carro. Da professionista del settore, come sta vivendo questa situazione in cui – con l’eccezione della stagione estiva – il sentimento prevalente tra i lavoratori della musica e dello spettacolo è stata la rassegnazione?
«L’intero settore sta facendo enorme fatica – e non parlo solo dei cantanti, ma di tutti coloro che vivono di musica. Per quanto l’emergenza sanitaria abbia radicalmente cambiato l’ordine delle cose, resto della convinzione che l’attività del settore musicale sarebbe senz’altro ripartita, nel pieno rispetto dei protocolli di sicurezza, se solo avessimo rispettato le regole di convivenza sociale. Ad ogni modo, penso che la musica non sia una semplice forma di intrattenimento, ma un’arte che serve alle persone. Negli ultimi due anni, tutte le espressioni della cultura – diffuse attraverso la televisione e le piattaforme streaming – ci hanno fatto sentire meno soli. D’altro canto, la rivoluzione digitale ha aperto nuove strade, cambiando anche l’approccio alla musica dal vivo, che in un futuro non troppo lontano potrà essere ascoltata ovunque, ancorché l’esperienza del concerto rimanga senza eguali».
Quale canzone le piacerebbe interpretare non appena sarà possibile tornare a esibirsi davanti a una pur ristretta platea?
«Il cielo in una stanza, una canzone che non manca mai nei miei spettacoli».
Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.