Dai basilischi agli «scugnizzi»

   Il Sud e il cinema di Lina Wertmüller: uno sguardo denso di amarezza

La controra, il tempo sospeso in cui paesi si abbandonano a un sonno inquieto. La pietra angolare per descrivere pene e dolori di chi vive in periferia, sognando la grande città o al massimo uno spettacolo di rivista. Evadere con il pensiero per non lasciarsi sopraffare dall’inerzia di giorni sempre uguali, spesi tra il circolo culturale in cui giocare a carte e passeggiate senza meta. La fuga senza rimpianti, inseguendo la promessa di una vita frenetica come le strade di Roma negli anni della Dolce Vita felliniana. Il ritorno, infine: fine delle illusioni più che semplice nostalgia di casa. Al tramonto del miracolo economico, una giovane regista di origini lucane non portò soltanto sullo schermo le storie del paese d’origine di suo padre, Palazzo San Gervasio, ma tradusse in immagini un sentimento di mestizia e rassegnazione, estraneo alla rabbia e al dolore: I basilischi, l’opera prima di Lina Wertmüller datata 1963, è la cronaca di un disagio latente, mai urlato, che si fonde con l’inerzia dei giovani protagonisti, un geometra perdigiorno – Francesco, interpretato da Stefano Satta Flores – e uno studente di Giurisprudenza (Antonio, Antonio Petruzzi). Sullo sfondo delle lotte contadine e di una militanza politica più esibita che vissuta, I basilischi ripercorre le giornate monotone dei due protagonisti, che coinvolgono il loro amico Sergio (Sergio Ferranino) nelle loro avventure: il vano corteggiamento di una coppia di cugine – consumato di nascosto pur di non concedere argomenti di conversazione alla gente del paese – gli appostamenti sotto casa di una ballerina (Marisa Omodei) sposata infelicemente con un conte, l’incontro con un barbiere rientrato da Roma perché vittima di una fattura. Lina Wertmüller non nasconde la profonda frattura tra la generazione dei padri e quella dei figli: Antonio vive un rapporto oltremodo conflittuale con il padre, un burbero notaio (Luigi Barbieri) che rimprovera al figlio di «insegnare matematica agli analfabeti» e di non aver ancora concluso gli studi. L’insofferenza verso un ambiente così tetragono – manifestata in egual misura anche dal fratello minore – convince dunque Antonio a lasciare Palazzo San Gervasio per trasferirsi a Roma, approfittando di una visita dello zio in paese. Contestualmente, Francesco decide di rimanere e – con l’aiuto di una sorella – prova a mettere in piedi una cooperativa agricola, ma senza alcuna fortuna. E così, in un finale che somiglia tanto a un’elegia tragica, Francesco e Antonio si ritrovano ancora insieme, con la loro giovinezza non ancora svanita ma oramai priva di significato, riempita dal suono ossessivo delle «chiacchiere», il tratto distintivo delle piccole comunità secondo il giudizio impietoso della voce fuori campo che accompagna le ultime sequenze del film.

Se I basilischi è la fotografia di un’Italia lontana dai fragori del boom economico, il popolarissimo Io speriamo che me la cavo (1992) è il ritratto di una generazione abbandonata al confine tra il degrado (non solo morale) e l’illegalità. Qui non ci sono i muschilli dell’ultimo, memorabile articolo di Giancarlo Siani per «Il Mattino», né le paranze dei bambini che hanno ispirato Roberto Saviano: lo sguardo dei bambini cresciuti in fretta nella periferia degradata di Napoli (Arzano, curiosamente ribattezzata Corzano) non trasuda candore ma una sottile ed amara consapevolezza. I compiti perlopiù sgrammaticati dei bambini (raccolti nell’omonimo volume dal maestro elementare Marcello D’Orta) rivelano quelle verità che gli adulti, ormai assuefatti al male, non hanno il coraggio di dire. Certo: il film procede spesso per luoghi comuni che non risparmiano la questione della dispersione scolastica, qui trattata con troppa superficialità («I’ teng che ffa», dice il bidello al maestro Sperelli appena trasferito a Corzano). Tuttavia, la forza dell’interpretazione di Paolo Villaggio – finalmente sottratto alla ridondante serie di Fantozzi – e dei suoi piccoli alunni riscatta il film dall’inevitabile rassegna di buoni sentimenti che accompagna lo spettatore fino ai titoli di coda. 

Mezzo secolo di carriera per raccontare i nostri peggiori difetti, ma sempre con il sorriso: Lina Wertmüller non ha mai cercato di dare lezioni dietro a una macchina da presa. Più umilmente, ha provato a comprendere le nostre debolezze, celandole dietro un’amarissima risata. 


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni