Graffiti. No, non si parla della scritta “Ti amo cucciolotto” accanto al portone di casa. Sono le pitture rupestri moderne, le opere d’arte di quelli che chiamano vandali e di chi si sente stretto ad usare pennello e tela. Decorano le strade e i quartieri “grigi” delle città e, nel migliore dei casi, lanciano messaggi di denuncia, di espressione del sé.
Sia essa moda, provocazione o naturale evoluzione dell’arte, il maggior esponente di questa tecnica è Banksy. Non si sa esattamente chi sia o quanti anni abbia, ma ciò che si conosce è senza dubbio quello che più ci importa di lui: le sue opere. Fa infatti parte del movimento della “guerrilla art”, che adopera uno stile di graffiti tendente alla denuncia sociale e al volgere l’attenzione dei passanti (il vero pubblico di chi fa street art) su un tema in particolare.
Con linee semplici e pulite, giochi di chiaro-scuro e un leggero accenno di colore, Banksy disegna sui muri ciò che più critica alla società: il consumismo e conformismo, l’ipocrisia e la negligenza verso i giusti valori. Londra, Bristol (dove si pensa sia nato l’artista) e perfino il muro di Gaza ospitano i suoi lavori; immagini ironiche raffiguranti bambini, poliziotti, scene tratte dalla cultura pop riviste in chiave critica contro il capitalismo e che lasciano trapelare l’ideologia pacifista che lo contraddistingue. Le sue opere sono state valutate migliaia di sterline, mostrando ciò che lui stesso afferma: cioè che non sono i critici, i ricchi a decidere cosa è arte, ma il popolo. Ulteriore gesto di provocazione per lui è infatti entrare camuffato nei musei e appendervi suoi quadri senza che nessuno se ne accorga.
Ma passiamo al lato più interessante del suo personaggio. Ossia, che non esiste. Nell’era dell’ostentazione, lui rimane nell’ombra. Dove l’immagine è tutto e fine a sé stessa, lui usa le immagini per i contenuti. Si “camuffa” per entrare nei musei. Ma gli serve davvero, se nessuno l’ha mai visto in faccia?
Ed è proprio questo ciò che attira. Non sappiamo nulla di lui se non qualche piccola informazione, ma non importa perché quello che trasmette, le sue idee, il suo modo di pensare, è ciò su cui dobbiamo e, infondo, vogliamo soffermarci. Va contro ogni tendenza sociale volta a imporci l’importanza del superficiale, mette in luce i contenuti, che tendiamo implicitamente o meno, a porre in una posizione subordinata nella nostra scala delle priorità.
Eppure lui ci vede per cosa siamo: “rat” (i topi, il suo soggetto preferito). Piccoli e sottovalutati, ma con un’enorme potenziale. Il “popolo” che per lui tanto si adegua alle direttive della minoranza, unito può far crollare imperi.
Il suo volto sconosciuto è più espressivo di altri, in questo. Non serve un viso, un urlo per cominciare una rivoluzione, servono contenuti, idee e libera espressione del sé.
Con i suoi stencil, Banksy ha costretto il mondo dell’arte a cambiare i suoi parametri, ma lui disegna la società che vede. Sta a noi (cittadini, passanti), i destinatari delle sue opere, usarle per porci domande, criticare la stessa società in cui viviamo e pensare. Sì, pensare.