Il 27 Gennaio 2015, dopo quattro anni d’attesa, i Verdena pubblicano il loro sesto album Endkadenz vol.1, e per volere della casa discografica, si è dovuto attendere fino al 28 agosto per la seconda parte di quello che doveva essere un unico lavoro, Endkadenz vol.2.
Premetto che per il sottoscritto parlare dei Verdena ed esprimere un giudizio (e non è quello che farò) è un po’ dura, ma cercherò di tener fuori da questo articolo il ragazzino che urlava l’album Requiem a squarciagola nei corridoi del liceo mentre viveva i suoi 17 anni già intrisi di questo rock psichedelico.
Partiamo dal nome dell’album come ci viene descritto all’interno del libretto: Endkadenz – Effetto scenico teatrale – per la sua realizzazione Kagel scrive: “colpisci con tutta la forza possibile sulla membrana di carta del VI timpano, e nel frattempo, nella lacerazione prodotta, infilaci dentro tutto il tronco. Quindi resta immobile!”
Già questa breve descrizione sintetizza quello che sarà il concetto di entrambi i volumi: un colpo devastante fin dai primi riff di chitarra, un contenitore di parole libere ed una concezione armonica studiata nei dettagli, precisa, ma allo stesso tempo grezza e libertina. Una roba per orecchi fini. Confusione mista ad un sound un po’ stoner, un po’ psichedelico, un po’…un po’ Verdena.
UN SOUND PAZZESCO
Il disco nella sua totalità (vol1 & vol2) contiene una sorta di energia schizofrenica mista a quel suono “sporco” che ricorda un po’ il primo sound della band, quel graffiato primordiale, quel nero onnipresente, quei testi dilaniati da arrangiamenti distorti al massimo.
Un lavoro che non delude i fan, ma che sicuramente merita e necessita di essere compreso per coglierne una certa “genialità” sia nella musica che nei testi, quella genialità che da sempre caratterizza la band bergamasca.
Ricco di elementi piacevoli come la leggerezza poetica di Nevischio, la malinconia disarmante di Puzzle, la batteria un po’ anni 80 di Rilievo e lo sfrenato uso di cori, riverberi e delay, la freschezza di brani come Un po’ esageri o Cannibale…poi percussioni complesse e un pianoforte a sostituire parti scritte per la chitarra, volti a delineare l’ambiziosità di questo progetto.
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Questa “creatura” nata negli Henhouse Studios (il loro studio ricavato appunto da un pollaio) funziona, come funzionò l’antecedente album Wow (2011) e come funzionano loro, che sono tornati più folli e carichi che mai e mai banali, nuovi ma mai cambiati.
FOLLIA SUL PALCO
All’uscita di ogni volume ne è seguito un tour che ha definito la loro follia anche sui palchi italiani.
Nei primi live ancora “allo stato brado” abbiamo visto di tutto, dalle chitarre scordate alle chitarre distrutte (quando Alberto distrusse la sua Fender Jaguar ad un concerto, e ne chiese una in prestito ai fan sui social per il concerto successivo), errori discutibili come il partire fuori tempo e dover ricominciare da capo. Ma sono cose che puoi anche permetterti se la tua band si chiama Verdena e sta mettendo in scena uno spettacolo da panico. Che sia tutto parte dello show? Lo sanno solo loro.
Questo articolo non voleva essere una vera e propria recensione, semplicemente un omaggio ad una delle più grandi speranze del rock italiano, uno dei miei gruppi preferiti da sempre. Ho ascoltato entrambi i volumi mentre preparavo questo articolo e vi assicuro che avrei continuato a scrivere ad libitum, quindi mi fermo qui per non rasentare il noioso, e vi lascio un assaggio di questo Endkadenz, e a tutte le emozioni, citazioni, ispirazioni che potete trarne…buona musica!
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Nato nel 1990 e cresciuto a pane e rock’n’roll, aromatizzato con un pizzico di blues e insalata reggae.. alimenta la sua “prostituzione musicale” negli anni suonando con varie band e scrivendo canzoni fissando i tramonti sul mare di Diamante. Studia Comunicazione & Dams all’Università della Calabria. Ama il profumo della pioggia di fine estate, le canzoni in LA minore, Breaking Bad, i film francesi, le loro colonne sonore manouche e la scrittura dannata di Charles Bukowsky. Odia chi odia perchè infondo si sente un pò hippie anche se odia ammetterlo (ma una macchina del tempo che lo porti indietro negli anni ‘60 è il suo vero sogno), e parlare di se in terza persona che lo imbarazza molto.