Alessio Bondì: «Canto in siciliano per aprire le porte dell’irrazionale»

Il cantautore palermitano torna con Maharìa

Come trovare le parole giuste per celebrare l’amore, lenire le ferite del cuore e, se possibile, farsi una bella risata, quando ti misuri con le asprezze e gli imprevisti del dialetto? Se il compromesso perfetto è impossibile, si può comunque pensare di arrivare a una conciliazione tra la forza delle emozioni e le regole della metrica. La musica, però, è capace di dispensare magia e di superare anche gli ostacoli più insormontabili: nulla è fuori posto quando la voce è capace di arrivare al cuore di chi ascolta, anche se quella voce si esprime in un idioma che non suona familiare ai più. Dev’essere questo il segreto delle canzoni di Alessio Bondì, palermitano dall’anima mediterranea capace di tradurre il codice della nostre passioni in un dialetto dal respiro moderno. Merito di un’orchestrazione ricca – nella quale i fiati si intrecciano con gli archi – e dell’inventiva di un artista che si nutre di storie quotidiane, passioni universali e leggende popolari. Senza mai smarrire un’ispirazione autentica e appassionata che si tinge ora di colori vivaci, ora di intense malinconie. Il cantautore siciliano ha appena licenziato il suo terzo disco, Maharìa, anticipato dai singoli Ave Maria al contrario – un’elegia dei nostri tormenti amorosi – Fataciume, un catalogo zoologico che somiglia tanto a una filastrocca, e Taverna vita eterna, la storia di un singolare lupo mannaro che ha esagerato con la birra ed è costretto a trovare conforto nell’acqua Fiuggi. Una magia – il titolo del disco ha esattamente questo significato – in senso lato: le canzoni dell’album sono la chiave per esplorare il senso più profondo delle cose.

Alessio, qual è la magia di questo nuovo album, che arriva a tre anni di distanza da Nivuru?

«La magia è un concetto molto difficile da definire, perché è sfuggente. Questo album è il frutto di un lungo processo di maturazione che ha portato a comprendere cosa sia esattamente questa magia. Se parliamo in termini concreti, la magia è uno strumento per interagire con la sfera dell’irrazionale e, in un certo senso, è ciò che faccio con la stesura dei testi delle mie canzoni in siciliano, che è per me la lingua dei sogni e del profondo. Questa è anche una lingua negata, perché il siciliano è stato spesso associato alla mafia, tant’è vero che ci è stato quasi proibito di usarla. Al di là di tutto, il rapporto con l’inconscio non sarebbe possibile senza il siciliano, che è il lasciapassare per accedere a quel mondo sommerso: scrivendo in dialetto, infatti, ho scoperto molte cose di me, così come coloro che – interpretando i tarocchi – capiscono qualcosa in più del momento che stanno attraversando. La mia magia riguarda la lingua e la musica, dunque ciò che serve per poggiare l’orecchio su una porta che conduce dall’altra parte. In questo tentativo di dialogo, la lingua è la chiave per aprire questa porta».

Nella storia della musica, la canzone dialettale è stata spesso oggetto di letture stereotipate, che ne hanno sminuito il valore simbolico e il prestigio, presentandola alla stregua di un fenomeno folcloristico. Cos’hai scoperto di te scrivendo in siciliano?

«Quando hai un certo tipo di approccio con la scrittura, essa può rivelare molto di te. Il dialetto ti aiuta a scoprire emozioni che non pensavi di provare e perfino anticipare qualcosa che ti accadrà in futuro, anche se io non credo fino in fondo alla forza rivelatrice della scrittura. In ogni caso, parlare con un sé profondo può rivelare tantissime cose, per quanto sia difficile dire con esattezza quali siano: del resto, ogni canzone è un mondo a sé stante e persino l’esecuzione dal vivo di un certo brano offre altre possibili chiavi di lettura. Quanto alla scelta del dialetto, i pregiudizi del passato non mi riguardano minimamente, a maggior ragione se riesci a commuoverti fino alle lacrime mentre canti una canzone».

Il cantautore palermitano Alessio Bondì ha pubblicato altri due album: Sfardo (2015) e Nivuru (2018)

Hai detto che il palermitano è la lingua dell’irrazionale. Questo aspetto si può rintracciare in molti episodi di Maharìa, su tutti Fataciume e Ave Maria al contrario, quest’ultima molto sensibile agli echi del misticismo. A tal proposito: perché una preghiera ribaltata di senso?

«È un’immagine che è nata da una sessione di scrittura spontanea. Credo che sia la preghiera di chi non sa più a quale santo votarsi e, pur rivolgendosi al mondo religioso, è talmente arrabbiata che sembra quasi una bestemmia: non a caso, è un’Ave Maria al contrario. Questa è una canzone che ha rivelato moltissimo di quello che mi sarebbe accaduto nel futuro: l’ho scritta quando vivevo a Roma e non avevo alcuna intenzione di cambiare città. Di lì a poco, però, si sono verificati alcuni episodi che sono stati decisivi nella composizione dello scenario che mi ha portato a scriverla. Fataciume è invece una canzone completamente diversa perchè è concepita come un gioco. L’ho scritta dopo aver sognato alcuni animali dai risvolti piuttosto enigmatici: sono arrivato a trasporre questo sogno in una settantina di strofe, dalle quali è poi nata l’idea della filastrocca sugli animali. In questo brano mi rivolgo a un bambino, mettendo in scena una lacrima che si trasforma in un fiume al quale tutti gli animali si abbeverano prima di dormire. Alla fine, però, un incantesimo fa sparire tutto, compreso l’amore».

L’episodio più leggero dell’albumè certamente Taverna vita eterna, la storia di un lupo mannaro che ha bevuto troppa birra e, in preda ai calcoli renali, è costretto a rimpiazzarla con l’acqua Fiuggi. Com’è nata questa composizione, che recupera i toni divertenti già apprezzati in altri brani della tua discografia?

«Anche questa canzone rientra a pieno titolo nel discorso sulla magia, perché il lupo mannaro – detto anche lupunaru dalle mie parti – è un personaggio molto presente nei racconti dell’orrore e perciò ha a che fare anch’esso con il mondo della paura e dell’irrazionale, soprattutto negli ambienti palermitani di estrazione popolare: quando ero piccolo, infatti, ricordo che nei quartieri giravano molto queste storie. Da allora mi sono chiesto da dove provenissero queste voci, dal momento che ho sempre associato i lupi mannari al cinema americano. Con il tempo, però, ho scoperto che il lupo mannaro esisteva nell’immaginario ben prima della sua consacrazione cinematografica. È stato così che ho cominciato a delineare questo personaggio tragicomico che fa parte a pieno titolo del campionario umano e subumano della Taverna azzurra della Vucciria, sotto la quale, secondo me, c’è la bocca dell’inferno, (ride), perché è un luogo di assoluta perdizione della mia città. Ho voluto così raccontare una sua piccola disavventura con i calcoli renali, perché questo lupo di taverna non fa altro che ubriacarsi, ma solo quando la luna è piena. Il problema è che esagera con la birra anche quando non c’è la luna piena: per questo si rivolge all’acqua Fiuggi, che è senz’altro più salutare».

L’altro filo conduttore di Maharìa è l’amore, che affiora soprattutto da brani come 200 voti e Occhi tanti. Com’è cambiata la tua concezione dell’amore da un album all’altro? Cosa ci può essere di magico nel racconto delle passioni amorose, secondo te?

«Il rapporto con l’amore cambia con il passare degli anni per ciascuno di noi. Naturalmente, la musica e la scrittura accompagnano questo cambiamento: si passa così dall’illusione a una ritrovata speranza. Questa alternanza di sentimenti si può rintracciare in alcuni pezzi dell’album o nello stesso dislivello emotivo che esiste tra le singole canzoni. Il materiale infinito che ti offre un’altra persona è un po’ come avere a che fare con l’insondabile: l’altro è incomprensibile nel suo nucleo più profondo; noi stessi siamo incomprensibili per gli altri. Dunque, si tratta esclusivamente di un rapporto basato sull’ascolto e sulla fiducia, perché nessuno può carpire il segreto più profondo di una persona. Ed è proprio su questa sfuggevolezza che si basa il rapporto amoroso. A parer mio, lo stesso vale per la magia: non si sa bene perché ti piaccia una determinata persona, con la quale trascorri una parte della tua vita e alla quale, magari, giuri amore eterno. Per quanto ti faccia impazzire, cosa rende questa persona unica rispetto a tutte le altre? L’amore è dunque il rapporto irrazionale per eccellenza: anche se siamo fatti di una parte razionale, che pure consideriamo importantissima, la maggior parte delle nostre azioni è provocata da forze interne che conosciamo poco. Una canzone come Occhi tanti è tutta giocata sulla dicotomia tra vedere e non vedere: ricorda quasi il gioco del nascondino. Un gioco vicendevole, nel quale sembra quasi di spiare l’altro e che, per la sua stessa natura, costringe ad aguzzare la vista. Questo vedo-non vedo è quindi il riflesso dell’incomunicabilità. 200 voti inizia come una ninna nanna carica di speranza, ma si chiude con un’immagine di solitudine, che si salda con la sensazione di non riuscire a essere in pieno controllo di sé. Anche la title track parla di tutto questo in maniera ironica attraverso la ricostruzione di un sortilegio praticato fino a qualche tempo fa in Sicilia: un rito magico eseguito dalle donne per ingabbiare la persona amata. Le donne preparavano un caffé corretto con una goccia di sangue mestruale del primo giorno di mestruazioni ed erano affiancate da una nonna, una zia o una conoscente che doveva recitare una formula magica. Una volta consumato il caffé, l’uomo rimaneva ingabbiato per tutta la vita».

Che rapporto hai con la tua città, dalla quale ti sei trasferito per seguire i corsi dell’accademia teatrale “Corrado Pani” di Roma?

«Proprio durante gli anni trascorsi a Roma ho iniziato a comprendere l’importanza della cultura popolare palermitana. È un processo che coinvolge tante persone: Palermo, come molte altre città italiane, è molto presente nei pensieri di chi la vive. Una presenza così forte che non si ha l’abitudine di leggere cosa vi accadesse un tempo. La passione, dunque, nasce in un altro contesto: ho avuto fame di libri che parlassero della mia città proprio mentre risiedevo a Roma, perché – una volta cambiato lo scenario intorno a me – avevo bisogno di sapere chi fossi e, di conseguenza, quale fosse la mia identità culturale. Così ho cominciato a raccontarmi in un modo completamente diverso: se, in un primo momento, pensavo di essere un cittadino del mondo, a un certo punto ho compreso di non essere alieno rispetto alle persone della mia città. Il teatro ti dà una lente diversa per osservare la realtà: chi studia per fare l’attore deve avere necessariamente uno spirito investigativo. Quando hai un testo teatrale davanti a te, nessuno ti dice come recitarlo. Pertanto, devi calarti nella mentalità del personaggio e capire perché dica le cose in un certo modo. Tutto questo attiva una modalità di ricerca che ti aiuta a tirare fuori le cose dal buio. A un certo punto della mia vita, è scattato dentro di me l’interesse per il lato nascosto delle cose, che ho ritrovato nei gesti, nelle frasi e nei modi di fare della cultura popolare. Il dialetto, inteso non solo come manifestazione esteriore, ma anzitutto come percorso psicologico per arrivare a cogliere gli aspetti più profondi della cultura della mia terra, mi ha aiutato moltissimo».

Da un punto di vista strettamente musicale, è piuttosto interessante la scelta di discostarsi dai canoni della musica dialettale – basata storicamente su melodie essenziali, dominate perlopiù dalle chitarre classiche. Nelle tue canzoni, infatti, si possono ascoltare sia gli archi, sia i fiati. Come hai cercato di conciliare una strumentazione così ricca all’urgenza di raccontare le tue storie in dialetto?

«L’approccio è stato del tutto naturale: anche se le mie canzoni possono evocare gli scenari della Sicilia, non appartengono di certo alla tradizione. Dal punto di vista ritmico, la mia musica è fortemente influenzata dal blues e dalle atmosfere sudamericane. Inoltre, la mia scrittura non è per nulla tradizionale: ho scoperto l’opera di Rosa Balistreri (la principale esponente della canzone siciliana, ndr) dopo aver cominciato a scrivere testi in dialetto. Con il tempo ho imparato a scoprire alcune curiosità legate alla musica della tradizione, ma queste melodie non rientrano nel mio orizzonte sonoro. Di conseguenza, tutto ciò che esprimo nelle mie canzoni deriva dalla musica che mi ha accompagnato per tutta la mia vita e che continuo ancora oggi ad ascoltare. Per questo album ho avuto al mio fianco non solo una squadra di musicisti che hanno portato la loro professionalità e il loro cuore, ma anche un arrangiatore, Alessandro Presti, che ha sempre fatto parte della mia band. Per la prima volta nella sua carriera, Alessandro si è cimentato con l’arrangiamento di archi e fiati ed è riuscito a dare questo ulteriore tocco di magia al disco in relazione alla sua base rtimica, che abbiamo volutamente lasciato scarna proprio per esaltare questa marmellata di suoni».

Il tuo nuovo lavoro è stato pubblicato lunedì 21 giugno, in concomitanza con la Giornata mondiale della musica. È superfluo sottolineare i danni che ha subito l’intero settore delle arti e dello spettacolo nell’ultimo anno e mezzo per colpa dell’emergenza sanitaria. Qual è il tuo pensiero sulla ripresa dell’attività concertistica, pensando soprattutto a ciò che potrebbe accadere nel prossimo autunno? C’è il rischio che gli artisti estranei al circuito mainstream possano tornare nuovamente nell’ombra?

«Anche se ho molti timori, in questo momento sento crescere la speranza ed avverto il desiderio da parte del pubblico di tornare ai concerti. Secondo me, il bisogno di ascoltare la musica dal vivo sarà più forte dei timori, che pure sono fondati. Per quanto le difficoltà economiche del settore siano purtroppo evidenti e la stessa partecipazione ai concerti sarà limitata, penso che la musica non possa prescindere dalla vita delle persone. La pandemia mi ha rivelato il ruolo sociale della musica, proprio perché la sua assenza si è manifestata in maniera tangibile. Di conseguenza, tutto ciò che ruota intorno alla musica avrà un valore diverso e sarà proprio questo il sale che condirà il futuro di questo settore, in attesa che possa superare questo momento di crisi e riprendersi del tutto».

Un’ultima domanda: in futuro ti cimenterai con la canzone in italiano o resterai fedele al dialetto?

«A dire il vero, scrivo tantissimo in italiano, anche se non ho mai composto il testo di una canzone, forse perché la mia formazione non è stata caratterizzata dalla musica italiana: il motore della mia ispirazione ha sempre avuto un che di esotico. Mi sono divertito tantissimo a scrivere con Gabriele Amalfitano i testi delle sue canzoni, occupandomi prevalentemente delle melodie e delle armonie. Per la verità, non è ancora uscito alcunché, ma non escludo prima o poi di incidere questi brani. Ad ogni modo, sebbene l’italiano sia comunque la mia lingua, amo moltissimo quel che sto facendo in questo scorcio della mia carriera».

Carmine Marino
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Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.