Aiutiamoli a casa: si, ma come? Intervista a La Terra di Piero

Il dibattito sull’immigrazione vede oggi contrapposti, da un lato, chi è favorevole all’accoglienza e ritiene che aiutare tali persone sia un dovere morale prima che civile, dall’altro, invece, chi è convinto che l’Italia non possa occuparsene dal momento che i primi ad avere bisogno di maggiore assistenza sono gli italiani stessi. Gli appartenenti al secondo schieramento sono soliti sbandierare slogan quali “Prima gli italiani”, “Porti chiusi” e il sempreverde “Aiutiamoli a casa loro!”.

Volendo per un momento prendere le parti di questi ultimi e immaginare che vogliano realmente aiutarli -dando così un seguito concreto ai loro proclami-, una domanda sorge spontanea: come si possono aiutare queste persone a casa loro combattendo il fenomeno alla fonte ed evitando così che abbiano la necessità di fuggire dalla propria terra?

Lo abbiamo chiesto a chi, ormai da anni, si occupa attivamente di ciò: Sergio Crocco, Presidente e fondatore dell’associazione La Terra di Piero.

Innanzitutto, come nasce e di che si occupa La Terra di Piero?

 La Terra di Piero nasce nel 2011 da un evento tragico, la morte di Piero Romeo. Abbiamo deciso di fondare questa associazione per ricordare Piero e per farlo a modo suo, occupandoci di sociale e solidarietà e operando nella Repubblica Centrafricana dove avevamo già svolto delle missioni insieme. Siamo partiti con un obiettivo minimale, costruire un pozzo a Paoua. Ci siamo riusciti in pochissimi mesi e da quel momento non ci siamo più fermati: abbiamo costruito un asilo sia a Paoua che a Bédaia e una casa famiglia a Bangui, che è la capitale. Poi purtroppo ci siamo dovuti fermare per colpa della guerra civile.

Siete stati molte volte in Africa: cosa vi ha spinto a fare ciò e cosa si prova ad aiutare queste persone?

Ci ha spinto la voglia di ricordare Piero facendo le cose in modo concreto come piaceva a lui. Noi ci occupiamo soprattutto della parte infantile dell’Africa: andiamo negli orfanotrofi e nei lebbrosari, dove purtroppo si trovano moltissimi bambini. Pensa che nel centrafrica la popolazione è costituita al 70% da ragazzi con meno di venti anni e l’aspettativa di vita è di 40 anni. Cerchiamo di migliore la qualità della vita di questi bambini, pur sapendo di poter fare pochissimo: possiamo aiutare meno dello 0,01% ma non importa, l’importante è aiutarli. Il loro sorriso ci ripaga di tutti gli sforzi fatti.

Come pensate si possa arginare il fenomeno immigrazione? Sempre più italiani oggi invocano la chiusura dei porti e ritengono bisogni aiutarli a casa loro: come si può, secondo la vostra personale esperienza, farlo davvero?

Questi slogan sono fini a se stessi, pensano basti dire “aiutiamoli a casa loro” e tutto si risolve. Più che aiutarli si può affrontare e risolvere il problema smettendola di depredarli a casa loro: smettiamola di rubare il coltan in Congo, i diamanti in Namibia, l’oro in Tanzania, il cobalto in Madagascar ed il petrolio in Nigeria. Diamo agli africani la possibilità di usufruire delle loro materie prime e smettiamola di aiutare i governi fantoccio, perché ciò che ho capito nei miei 15 viaggi in Africa è che questi sono il vero problema: governi composti da neri che si vendono alle multinazionali e ai governi occidentali, in questo modo pochissime persone diventano sempre più ricche mentre il resto della popolazione muore di fame.

Sappiamo che vi occupate, oltre alle missioni in terra d’Africa, anche di integrazione. 

Noi viaggiamo su due binari paralleli: l’Africa e la disabilità. Spesso ciò che realizziamo in Africa lo realizziamo anche a Cosenza e viceversa. Ci occupiamo anche di mare, acquistando e distribuendo ai lidi le JOB, delle sedie particolari che consentono di far fare il bagno ai disabili. 

A proposito di questo parallelismo, c’è una cosa che accomuna e rende allo stesso tempo uniche Cosenza e la Tanzania: il Parco Piero Romeo, un parco giochi inclusivo che permette ai bambini disabili di giocare e divertirsi insieme a tutti gli altri senza alcuna barriera. Cosenza è la prima città del Mezzogiorno- e tra le poche in Italia- a vantare un parco giochi inclusivo, la Tanzania è la seconda in tutta l’Africa. Come vi è venuta questa splendida idea?

L’idea c’è venuta un anno e mezzo fa: eravamo nella periferia di Iringa- una delle città più grandi della Tanzania- e stavamo visitando il centro “Sambamba” dove si trovavano dei bambini disabili curati da un’associazione italiana chiamata “L’Africa chiama”. Vedevamo questi bambini che venivano curati in modo fantastico e amorevole ma che non riuscivano a giocare con i loro coetanei e ci siamo chiesti: “Perché dopo il Parco Piero Romeo costruito a Cosenza, non ne realizziamo un altro gemello quì?”. Abbiamo avviato subito i lavori e li abbiamo portati a termine in appena un anno. A tal proposito ci tengo a sottolineare una cosa: noi non facciamo nulla per loro, ma con loro, costruiamo tutto insieme ad associazioni africane. Il Parco ad esempio è stato costruito insieme all’associazione “Sauta sidia”, che è la nostra referente in Tanzania: questo sia perché non vogliamo fare assistenzialismo, sia perché, una volta tornati in Italia, se non lasciassimo sul posto persone capaci di gestire le strutture, queste finirebbero per diventare delle cattedrali nel deserto. Operando in questo modo invece la crescita e lo sviluppo di queste terre si traduce in un miglioramento strutturale.

Progetti futuri?

Vorremmo andare nel Nord del Mozambico dove a maggio un ciclone ha distrutto intere aree e aiutare così queste persone. Il problema è che in questa regione c’è molta criminalità e se non siamo sicuri dell’ordine pubblico non possiamo mettere in pericolo la vita dei ragazzi che viaggiano insieme a noi. Se ciò non sarà possibile andremo in Uganda, un’altra regione poverissima. Non siamo ancora sicuri della destinazione, ma siamo certi che La Terra di Piero andrà sempre almeno uno due volte l’anno in Africa.

Chi è estraneo al mondo ultras ritiene che questi rappresentino un sinonimo di violenza e ignoranza. La Terra di Piero e i Nuclei Sconvolti- gruppo storico degli ultras Cosenza di cui Lei e Piero Romeo eravate leader indiscussi- sono la prova che le cose non stanno esattamente così?

Hai ragione. Non siamo stati dei santi, abbiamo commesso molti errori ma abbiamo fatto anche tante cose belle. Come in tutte le cose della vita non è mai tutto bianco o nero, c’è il grigio, l’arancione, il rosso ed il blu, ci sono tante sfaccettature e questo è stato il mondo ultras almeno fin quando ne ho fatto parte. Ciò che da ultras abbiamo cercato di portare avanti è stato l’amore indiscusso per il Cosenza calcio, per la città di Cosenza ma anche per una solidarietà fattiva e concreta verso gli altri. Il non girarsi mai dall’altra parte quando c’è un problema, perché i problemi degli altri sono anche nostri. Se un bambino ha l’Aids- e purtroppo in Africa ce ne sono davvero tantissimi- è come se l’avessimo anche noi. Quando queste cose le vivi capisci che non puoi assolutamente far finta di nulla e restare con le mani in mano. Il primo viaggio l’ho fatto nell’86 e da allora non ho più smesso.