La vicepresidenza, il pregiudizio positivo e l’imperialismo intersezionale.
“Le idi di marzo” – a cui fa riferimento il titolo dell’articolo – è un film del 2001 diretto e interpretato da George Clooney in cui un giovanissimo Ryan Gosling, addetto stampa di un candidato alle primarie del partito democratico (Clooney appunto) favorito nella corsa alla Casa Bianca, scopre che il suo beniamino non è poi così integerrimo come vuol far credere al suo elettorato.
Ai tempi del film le malelingue colsero un riferimento, non molto velato, alla presidenza di Barack Obama che, presentatosi inizialmente come il novello Abramo Lincoln, deluse le aspettative di molti.
Questa fresca elezione statunitense mi ha un po’ riportato alla memoria le scene del film, soprattutto in riferimento alla figura della vice presidente di Joe Biden.
Kamala Devi Harris è la prima donna e la prima persona asiatico-americana eletta vicepresidente nella storia degli Stati Uniti d’America.
Chiunque creda nell’eguaglianza, me compresa, ha avuto sicuramente più di un brivido di emozione nel leggere delle sue radici multietniche, nel vederla avvolta da una giacca di strass arcobaleno e nel sentirla parlare di come sia stata, ogni volta, la prima donna e la prima persona di colore ad ottenere il ruolo più importante in ogni ufficio a cui è arrivata nella sua lunga carriera politica; questo però non deve trarci in inganno.
Kamala Harris è indubbiamente una donna straordinaria, ma la multiculturalità da cui proviene e le battaglie di cui si è fatta spesso portavoce non devono farci calare sugli occhi una patina di pregiudizio positivo nei suoi confronti.
Come ogni politico che si rispetti, su di lei incombono luci e ombre.
Una delle frasi emblematiche di Francis Underwood (House of cards), il personaggio più controverso che io abbia incontrato nel mondo delle serie tv e magistralmente interpretato da Kevis Spacey, poco prima di essere travolto dallo scandalo sollevato dal movimento #metoo, è la seguente:
“La strada per il potere è lastricata di ipocrisia e casualità”.
La Harris, infatti, ha avuto difficoltà a riscuotere l’endorsement dalla comunità nera rappresentata dal movimento Black Lives Matter in quanto è ritenuta responsabile del rafforzamento delle politiche di carcerazione massiva che, secondo la University of Dayton Law Review, hanno avuto un impatto sproporzionato sulla comunità afroamericana, durante il suo mandato come procuratore nello Stato della California.
É stata inoltre accusata di applicare politiche altamente discriminatorie nei confronti delle prostitute trans appartenenti alle comunità di colore più povere, adducendo come giustificativo un nesso tra la trasmissione dell’AIDS e il sesso a pagamento, riportato in auge da retaggi razzisti degli anni Ottanta.
La sua figura incarna perfettamente l’ideale di imperialismo intersezionale: una persona che rappresenta una minoranza fa carriera in politica perché l’aspetto progressista fa impennare l’indice di gradimento nelle fasce di popolazione più inclusive, mentre le idee tradizionaliste strizzano l’occhio a quelli che, da sempre, tengono i conteggi nelle stanze dei bottoni.
Un proverbio turco recita:
“Quando l’ascia entrò nel bosco alcuni alberi dissero:
– Almeno il manico è dei nostri”.
Lungi da me decretare se la Harris sia effettivamente il manico dell’ascia che entra nella nostra foresta, ma posso però provare a indurci nella riflessione e a bypassare, per quanto possibile, gli stereotipi, anche positivi, che potrebbero guidare le nostre scelte nella cabina elettorale.
Sarebbe auspicabile che cominciassimo a esprimere le nostre preferenze in base a ciò che il nostro favorito ha effettivamente realizzato, al di là del suo sesso, della razza, dell’orientamento sessuale o della religione.
É essenziale che il popolo americano e noi – che ci collochiamo come semplici spettatori delle vicende Usa, ma che possiamo impegnarci in prima persona in ciò che avviene nel nostro paese – teniamo bene a mente che non bisogna allentare la presa solo perché il volto umano delle istituzioni sembra somigliarci un po’ di più.
Bisogna continuare a lottare e ambire a vivere in un sistema sempre più equo, per tutti.
Avere una donna asiatico-americana come vicepresidente degli Stati Uniti è comunque una grande conquista ma, come dice Bishop Briggs nella sua canzone White Flag “I rather die than give up the fight” (trad. Preferisco morire che abbandonare la lotta).