Come i giovani invitano a una visione della storia globale e multiculturale contro la “vecchia generazione” eurocentrica
Una secchiata di vernice rossa è bastata per rievocare il passato oscuro di colui che è considerato il padre del giornalismo italiano. La statua di Indro Montanelli, eretta a Milano negli omonimi giardini, non è nuova agli smacchi, già nel 2019 le attiviste di Non una di meno l’avevano inondata di vernice rosa, a ricordare quello è stato un episodio molto specifico della carriera militare del giornalista: il matrimonio di Madamato contratto durante un periodo di stanziamento nei territori colonizzati in Eritrea.
Il rapporto di madamato – che consisteva in relazioni temporanee con giovani donne del posto – era una pratica disumana in cui il popolo colonizzato, sottomesso all’esercito italiano e impoverito, vendeva tramite contratto matrimoniale le proprie figlie ai soldati italiani che ne volessero “usufruire” per il tempo passato in Africa, lasciandole in seguito sole e senza dote nel momento in cui facessero ritorno in patria. La sposa di Montanelli aveva dodici anni e molti dettagli, anche crudi, del rapporto tra Montanelli e Destà sono stati diffusi a più riprese da lui stesso: il “docile animaletto”, come la definiva, era infibulata e il rapporto sessuale fu quindi molto difficile per lui, che in quel momento dovette pure – a suo dire – sopportarne il cattivo odore. Però, asseriva anni dopo, le voleva bene e affermava di provare quasi un affetto paterno nei suoi confronti.
Il suo racconto, ribadito negli stessi toni e con le stesse modalità fino all’anno precedente la sua morte, mostra i toni paternalistici e razzisti del tipico colonizzatore e rivelano un “modus cogitandi” che è stato inevitabilmente portato avanti nei suoi scritti e, di conseguenza, ha influenzato il giornalismo e la società italiana di oggi. Ne è la prova ultima il tentativo degli stessi giornalisti del nostro tempo, anche suoi allievi, di scusare questo episodio – per cui Montanelli stesso non si mostrò mai pentito – in ogni sua parte, tentando di “contestualizzarlo”. E proprio riguardo il contesto, se si tratta di una giustificabile considerazione per personaggi storici “controversi”, mal si applica a una persona che per tutta la vita ha ribadito l’episodio incriminato senza trovarne alcuna problematicità.
Di fatto, la reazione collettiva ha quindi mostrato tutte le lacune che ancora deve colmare l’Italia riguardo il suo rapporto con la pedofilia e il razzismo.
Concentrandoci solo su quest’ultimo, soprattutto il problema del razzismo strutturale è ciò che si vuole sollevare durante le proteste portate avanti dal movimento Black Lives Matter, ormai non più circoscritto agli Stati Uniti, ma esportato a livello globale. La vernice rossa sulla statua di Indro Montanelli a Milano, la statua di Cristoforo Colombo buttata giù a Richmond, in Virginia, e tutte le altre effigi deturpate, raffiguranti colonizzatori e generali che si sono macchiati di genocidio di minoranze, sono azioni di protesta che vogliono evidenziare il “lato oscuro” di coloro che la storia ha sempre decantato come eroi e vincitori, innescando inevitabilmente una riflessione sulla concezione moderna della storia e dei monumenti che la rappresentano.
Non è stato risparmiato da questi attacchi neanche Winston Churchill, che in Gran Bretagna è eroe nazionale. La scritta “racist” (trad.: razzista) graffitata sulla statua a Westminster ha generato sdegno, ma anche un dibattito interessante sull’imperialismo britannico, perché Churchill, pur combattendo i nazisti e i fascisti, non sembrava avere idee tanto distanti quando si parlava dei “barbari” che sottometteva in Australia e in India. Il suo razzismo e antisemitismo viene spesso ignorato sui libri di storia, prediligendo una narrazione funzionale al ruolo che ricoprì durante la Seconda guerra mondiale.
La riflessione e il dibattito innescato hanno portato alla luce, quindi, l’ennesimo gap generazionale. La massiccia presenza e coinvolgimento delle giovani generazioni nelle manifestazioni Black Lives Matter ha permesso di ascoltare voci nuove e multiculturali su temi e materie che altrimenti sarebbero prerogativa di soli accademici bianchi e borghesi.
La prima reazione degli storici e degli intellettuali che rientrano nelle ultime categorie è stata quella di associare questo moto “distruttivo” delle statue a una intenzione implicita di voler “distruggere” la storia, anzi cancellarla, associando – erroneamente, forse – queste azioni a una tendenza online, resa evidente durante il picco del movimento MeToo, di voler “cancellare” personaggi pubblici che fossero incolpati o indagati di crimini sessuali o esternazioni discriminatorie.
Tuttavia, sembra che la distruzione delle statue non voglia rappresentare un attacco alla storia in sé, ma al modo in cui essa viene tramandata. Ci si ribella contro l’idealizzazione di personaggi discutibili, lo studio di parte di figure che hanno avuto un ruolo chiave in grandi eventi storici e, soprattutto, contro una narrazione eurocentrica, che – paradossalmente – cancella o tralascia gli avvenimenti e la prospettiva delle minoranze e dei popoli degli altri continenti, invitando ad adottare una visione globale e meno discriminatoria della storia.
Già pubblicato il 29 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud – l’Altravoce dei ventenni