Il 27 settembre 1970 debuttava la più famosa trasmissione calcistica della tv italiana.
Valenti, Barendson, Necco, Castellotti, Vasino, Giannini, Carino, Gard, Bubba, Giacoia, Barletti. Una Nazionale che, come poche altre, ha saputo unire gli italiani sotto le rassicuranti insegne di 90° minuto, l’appuntamento della domenica pomeriggio che – molto prima della moltiplicazione incontrollata di spazi e appuntamenti consacrati al pallone in tv – bussava alle porte dei tifosi e degli appassionati, dispensando gol e immagini a caldo delle partite.
Se Tutto il calcio minuto per minuto stuzzicava e accendeva la fantasia dei radioascoltatori, raccontando in diretta i secondi tempi delle partite di serie A, Novantesimo minuto – questo era il titolo originario della trasmissione, che debuttò sul Programma Nazionale alle 18.15 di domenica 27 settembre 1970 – traduceva in immagini quelle emozioni che, fino a un paio d’ore prima, erano un privilegio concesso solo al pubblico degli stadi e agli inviati sui campi. Un rito da celebrare in mezz’ora, un gol dopo l’altro, senza particolari concessioni alla chiacchiera né agli episodi da moviola, di cui si sarebbe occupata a tarda sera La domenica sportiva.
Ritmo, semplicità, chiarezza: le regole dettate da Paolo Valenti e Maurizio Barendson, la coppia di giornalisti che prese il comando di 90° minuto fin dagli esordi, somigliavano tanto a una sentenza. «Parlate di calcio come fareste con un bambino», aggiungeva Valenti, prima allievo e poi maestro di una scuola di giornalismo, la redazione radiocronache della Rai, che insegnava a muoversi con disinvoltura tra lo sport e i fatti di cronaca. Dal canto suo, il compagno di banco Barendson portava sullo schermo i modi di un professionista consumato, gentile e affabile. La combinazione perfetta per un programma che aveva lo scopo di presentare il calcio non tanto e non solo come un fatto agonistico, ma prima di tutto come una grande festa popolare: il ricordo del Mondiale messicano e della leggendaria semifinale tra Italia e Germania Ovest, el partido del siglo, era ancora vivissimo quando Novantesimo arrivò in televisione.
A metà degli anni Settanta, la riforma della Rai modifica i connotati dell’offerta televisiva del servizio pubblico: il vecchio Programma Nazionale passa sotto il controllo della Democrazia cristiana, mentre la Rete 2 viene appaltata al Partito socialista. Le strade di Valenti e Barendson si dividono: il giornalista toscano inaugurerà una lunga collaborazione con il Tg1, restando alla conduzione di 90° minuto, mentre il collega napoletano parteciperà alla fondazione dei servizi sportivi del Tg2, occupandosi di un’altra rubrica sportiva di culto, Domenica sprint, in onda all’ora di cena. Con l’istituzione di due redazioni sportive distinte, Valenti non si trova solo a dover fronteggiare la concorrenza interna del Tg2 – che sfiderà apertamente 90° con una trasmissione che fin dal titolo, Golflash, promette di soddisfare in pochi minuti le aspettative degli sportivi – ma scopre nel contempo di aver perso alcuni dei suoi cronisti migliori. Da questa situazione oggettivamente sfavorevole, però, Valenti esce quanto mai rafforzato: nell’estate del 1976, a riforma già avviata, il conduttore di 90° minuto inizia a reclutare giornalisti in giro per le sedi regionali della Rai, la maggior parte dei quali privi di una formazione specifica in materia calcistica. Un limite che si trasforma paradossalmente nel punto di forza del programma: i tecnicismi e le analisi seriose lasciano spazio all’inventiva, alle sgrammaticature e alla ingenua (ma sincera) passione dei cronisti.
Da semplice rubrica di informazione sui fatti della giornata di campionato, 90° minuto diventa un’imperdibile e irresistibile rivisitazione della commedia dell’arte, nella quale ognuno, non importa se protagonista o comprimario, recita brillantemente il proprio ruolo, nascondendo a fatica la propria fede calcistica: Marcello Giannini, con il suo eloquio garbato, celebra i colori della Fiorentina fino a smarrirsi tra le parole; Luigi Necco interviene da Napoli con un nutrito e chiassoso gruppo di scugnizzi alle sue spalle; Ferruccio Gard, al seguito delle squadre venete e lombarde, non disdegna un tocco di sottile ironia nelle sue cronache; Cesare Castellotti, la voce di Torino e Juventus, ama le giacche sgargianti e ha persino il vezzo di tagliarsi i baffi tra un collegamento e l’altro: quel che basta per meritarsi una spassosissima parodia del Trio Marchesini-Solenghi-Lopez a Domenica In. Nella galleria dei volti consacrati da 90°, però, spicca Tonino Carino da Ascoli. I suoi interventi ora sbilenchi, ora contorti, perennemente sospesi tra la comicità involontaria e l’assurdo, sono una partentesi di leggerezza in un ambiente poco o per nulla avvezzo a prendersi in giro. Dal canto suo, Valenti segue sornione l’intera recita, portando nelle case degli italiani una bonomia e un sorriso che rendono quasi paterna la sua figura.
90° minuto divenne così un eccezionale e dirompente fenomeno di costume che, a suo modo, anticipò il binomio tra calcio e spettacolo. Eppure, la rubrica della domenica pomeriggio – che raggiunse negli anni d’oro una media di 10 milioni di telespettatori – non sarebbe stata così popolare senza il concorso di due fattori convergenti: da una parte, la capacità di parlare a un pubblico largo e trasversale, con il risultato di avvicinare per la prima volta tante donne al mondo del pallone; dall’altra, l’idea (solo in apparenza elementare) che il calcio fosse un gioco e che pertanto fosse necessario raccontarlo con un pizzico di distacco, tenendosi a debita distanza sia dalla stanca retorica delle cronache dei quotidiani, sia dai toni aspri e rissosi dei dibattiti officiati da Aldo Biscardi negli studi de Il processo del lunedì. Un esempio lampante per tutti: le compiaciute schermaglie tra Luigi Necco e Gianni Vasino, specchio in sedicesimo della rivalità tra il Napoli di Maradona e il Milan degli olandesi sul finire degli anni Ottanta. «Napoli chiama, Milano non risponde», sentenziò il cronista napoletano, che accompagnò questa battuta con il gesto delle tre dita, ricordando al collega la sonora sconfitta incassata dai rossoneri. Poco più di una marachella, se comparata alle parole in libertà che circolano oggi sul web.
90° minuto accompagnò con la sua sigla e le sue adorabili maschere l’epoca d’oro del calcio italiano, coincisa con il trionfo della Nazionale ai campionati del mondo di Spagna ’82 e il ritorno degli stranieri nella massima serie. La fortuna della rubrica – che ebbe anche il merito di lanciare nomi importanti del giornalismo italiano come Lamberto Sposini e di inserire una donna, Donatella Scarnati, nella squadra dei cronisti – durò fino all’autunno del 1990, quando Paolo Valenti fu costretto a lasciare la trasmissione che aveva inventato a causa di un tumore che non gli lasciò scampo. Al suo posto subentrò Fabrizio Maffei, che impose un deciso cambio di rotta al programma: il meraviglioso teatrino della domenica pomeriggio lasciò il posto a una trasmissione oltremodo ingessata, che aveva sacrificato la sua natura più autentica in nome di un racconto freddo e istituzionale. Neppure l’avvicendamento tra Maffei e Gian Piero Galeazzi, promosso nel 1992 alla conduzione di 90° minuto dopo una lunga e fortunata carriera da inviato (e da telecronista di tennis e canottaggio), riuscì a mascherare il declino della rubrica che, seppure ancora molto popolare, aveva ben poco in comune con il programma che tutti avevano conosciuto: al netto delle frequenti incursioni di Galeazzi nel territorio dello spettacolo puro, che pure contribuirono al successo di Domenica In nel cuore degli anni Novanta, 90° non aveva perso soltanto lo spirito delle origini e tutti i suoi volti storici: rimase spiazzato dalle trasformazioni di un calcio che, con l’avvento della pay-tv, aveva accettato le lusinghe della finanza e del business selvaggio. E quella trasmissione così moderna e rivoluzionaria al suo debutto finì poco a poco per perdere visibilità e interesse tra gli spettatori che, anno dopo anno, cominciarono a spostarsi sulle piattaforme satellitari per seguire le partite in diretta.
Nell’estate del 2005, infine, la più profonda delle ferite: Mediaset si aggiudicò i diritti per la trasmissione in chiaro delle immagini della serie A, costringendo la Rai a congedare (seppure temporaneamente) uno dei suoi programmi più amati e conosciuti. Ci vollero tre anni perché la sigla di 90° minuto – nel frattempo retrocesso su Raidue – tornasse ad annunciare le immagini del campionato che un tempo era considerato «il più bello del mondo». Un tocco di magia, nostalgico e commovente, che è un inno alla bellezza (sfregiata, ma non del tutto smarrita) di un pallone che rotola e finisce in rete.
Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.