2001: A SPACE ODDYTY

 

Stanley Kubrick ha cambiato la mia vita. Ogni volta che guardavo un suo film la mia percezione delle cose si ribaltava, ogni volta che riguardo una sua pellicola tutto mi appare più chiaro. Il genio di Kubrick mi si è conficcato in testa come una pallottola, la sua arte mi ha psicanalizzato, indebolito e rafforzato, sconvolto e spiazzato, ma soprattutto ha contribuito alla mia presa di coscienza. Mi accorgo dei cambiamenti della mia personalità dai sogni che faccio: un mio incubo ricorrente è sempre stato quello di schiantarmi in volo; dopo aver visto “2001: Odissea nello spazio” L’aereo ha iniziato ad assumere sempre più l’aspetto di un’astronave con strane poltrone settecentesche al posto dei sedili e lo schianto è divenuto un viaggio infinito tra le stelle. Non avrei mai pensato che un film avrebbe potuto condizionarmi fino a tal punto, tanto più per il mio iniziale scetticismo per via della critica che, seppur idolatrandolo, metteva in guardia da una certa lentezza e lungaggine.

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Ero scettico e invece sono nato una seconda volta sulle note di “Così parlò Zarathustra” durante la sequenza iniziale del film, mi sono goduto il serafico viaggio verso la Luna accompagnato dal celebre valzer di Strauss “Sul bel Danubio blu” e mi sono perso ai confini dell’Universo in un viaggio allucinogeno, arrivando a sfiorare la conoscenza assoluta per poi divenire uno “Starchild” un tutt’uno col cosmo. La visione di “2001: A space Odyssey “ è proprio un’esperienza extrasensoriale incredibile, un viaggio spaziale interminabile, inevitabile, che lascia tutto il tempo di riflettere su cosa sei stato, sei e sarai. La visione di Kubrick è molto più che fantascienza, è esistenzialismo, è una riflessione sull’essere umano e sulla vita, è una metafora della società sul finire degli anni 60: la guerra fredda, il terrore di un nuovo conflitto mondiale atomico, un’evoluzione tecnologica sempre più incalzante e il conseguente sbarco sulla Luna. Tutti eventi che segnarono lo strapotere degli Usa e uno slancio di onnipotenza dell’uomo che da padrone di sé diviene padrone dello spazio, che assoggetta popoli e pianeti a suon di missili.

And all this science
I don’t understand
It’s just my job
five days a week
A rocket man, a rocket man

And I think it’s gonna be a long long time...

Cantava Elton John quattro anni più tardi, era il 1972, immaginando il suo “Rocket Man” come un pendolare dello spazio, che mai farebbe crescere i propri figli su Marte dato che è maledettamente freddo; l’uomo razzo che è pur sempre un uomo e che ha nostalgia della terra,di sua moglie e ad accompagnarlo nella galassia ci sono solo i propri timori.

indexPoi c’è il Major Tom del Duca Bianco (David Bowie) che nella sua Space Oddity, chiaro omaggio a” 2001: Odissea nello spazio” (dal quale venne letteralmente fulminato) si perde nello spazio e nonostante non ci sia più nulla da fare il maggiore è molto tranquillo e si fida della sua astronave.

Allo stato attuale delle cose si progetta di sbarcare su Marte cover_30211919112009nel 2023: “L’uomo razzo” farebbe meglio a coprirsi per bene quindi, mentre David Bowie probabilmente ora si interrogherà se vi sia vita sul pianeta Kepler-22b, dato che è stato appurato che i marziani, ahimè, per via di quel maledettissimo freddo, non sono mai venuti alla luce. Scherzi a parte, consiglio vivamente l’ascolto e la lettura del testo di “Life on Mars” probabilmente uno dei brani più belli di “Ziggy Stardust”, che con questo pezzo coglie perfettamente l’inquietudine di un’adolescente, la contrapposizione tra la relativa insignificanza dell’esistenza umana e l’eccitante pensiero che ci sia un’altra realtà, una nuova esistenza, alla quale però la ragazza dai “capelli color topo” non avrà mai accesso.

Non è del resto per questo che si viaggia nello spazio? Voglio dire, se non per fuggire da una realtà che ci sta stretta? Oppure è per la necessità di trovare sempre un senso a tutto, sperando magari di incappare nel monolite nero, nel deus ex machina, nel nostro creatore, sarà per amore della scoperta o più semplicemente perché siamo venuti ai ferri corti col genere umano?

Io so solo che il mio incubo è diventato il mio sogno più grande, quello di terminare l’esistenza perdendomi nello spazio, salutando da un oblò la Terra senza prendermi troppo sul serio, senza pretendere di trovare chissà cosa o chissà chi e poi magari va a finire che trovo proprio me stesso. 2001_a_space_odyssey_59849-1920x1200