Photo by Greyson Joralemon on Unsplash

1991, l’ultima rivoluzione rock

Nirvana, Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers: un anno di grazia (e di grande musica)

Rabbia e disperazione, tormento e male di vivere: l’ondata di piena che, all’alba degli anni Novanta, travolse la scena musicale americana non inaugurò soltanto una nuova fase nella storia del rock, ponendosi come alternativa sia alle contaminazioni con il rap e l’hip hop (culminate nella collaborazione tra gli Aerosmith di Steven Tyler e i RUN DMC), sia alle sonorità che appartenevano al filone dell’hard rock, capitanato dai Guns’n’Roses di Appetite For Desctruction.

L’avvento del grunge, infatti, squarciò il velo sul disagio esistenziale di un’intera generazione, alla quale consegnare un messaggio potente e diretto sotto forma di inno. Un giro di basso folgorante, la batteria che esplode come un detonatore di emozioni, una voce inconfondibile: la rivoluzione grunge (traducibile in italiano con «trasandato» o «sporco») ha i toni inquieti e passionali di Smells Like Teen Spirit, la canzone che apre la scaletta di Nevermind dei Nirvana, anno del Signore 1991.

Spalleggiato da Krist Novoselic e Dave Grohl (che avrebbe poi iniziato una nuova avventura artistica sotto le insegne dei Foo Fighters), il 24enne Kurt Cobain diventa il profeta dei giovani nati negli anni Settanta, prigionieri dell’apatia – descritta in canzoni come Lithium e Breed – insofferenti alle mode ed ai luoghi comuni (impietosamente elencati in Stay Away fino al provocatorio e iconoclasta «God is gay»). Eppure, anche nei momenti di apparente felicità (Drain You), si affaccia sempre lo spettro dell’autodistruzione, sublimato dal continuo e talora ossessivo richiamo alle armi che attraversa molte tracce del disco, da Come As You Are («E giuro che non ho una pistola», ripete il protagonista del brano all’amico di sempre) alla stessa Smells Like Teen Spirit, in cui il protagonista prova il brivido di sparare «a luci spente». Quasi un’anticipazione del tragico destino di Cobain, morto suicida appena tre anni dopo.

La lezione post-punk dei Nirvana – melodie scarne e inquiete, testi crudi e taglienti, assoli riconoscibili al primo ascolto – resta il frutto più maturo della scena di Seattle, cresciuta fin dalla seconda metà degli anni Ottanta intorno all’etichetta Sub Pop. Sotto l’ala protettiva di Bruce Pavitt e Jonathan Poveman crescono gruppi che occuperanno i posti di avanguardia del rock di fine secolo: da una parte i Soundgarden dell’indimenticato Chris Cornell, dall’altra i Pearl Jam.

Il quintetto guidato da Eddie Vedder debutta nei negozi di dischi poche settimane prima dei Nirvana con l’altrettanto seminale Ten, un album che in realtà corteggia più il rock classico che il grunge, complice una strumentazione più ricca e articolata. Tuttavia, Ten scatta una serie di fotografie impietose sulla realtà tanto quanto Nevermind: la solitudine del senzatetto protagonista di Even Flow (che pure avrà l’occasione di «ricominciare a vivere di nuovo»); la tragica storia di Jeremy, ispirata alla vicenda di uno studente di una scuola superiore del Texas che si tolse la vita a seguito delle violenze subite dai compagni, la spietata freddezza dell’assassino di Once, oramai incapace di frenare i suoi peggiori istinti. Infine, i due episodi più toccanti dell’album: Alive ricostruisce il giorno in cui scoprì la vera identità del patrigno, Release è un omaggio al padre che Vedder non ha mai conosciuto («Aspetterò al buio/In attesa che tu mi parli/mi aprirò»).

Le canzoni come un flusso di coscienza, dunque. Ne sa qualcosa anche Anthony Kiedis, il leader dei californiani Red Hot Chili Peppers. Under The Bridge non è un omaggio alla «Città degli Angeli»: è la delicata confessione di un uomo solo che ha letteralmente «buttato la sua vita» per colpa dell’eroina. Il vertice creativo di un disco eclettico: Blood Sugar Sex Magik – uscito il 24 settembre 1991, lo stesso giorno di Nevermind – prende in prestito i linguaggi del rap e del funk per denunciare le discriminazioni razziali (The Power Of Equality prende di mira il messaggio suprematista del Ku Klux Klan) e raccontare l’eros senza troppi giri di parole (Apache Rose Peacock, Sir Psycho Sex). L’energia del basso di John Frusciante (che, di lì a poco, sarebbe «uscito dal gruppo») si riversa tutta nella torrida Give It Away, che oscilla disinvolta tra allusioni sessuali e citazioni di Bob Marley. Tutto quello che serve per incendiare il cuore dei fan, già numerosi dopo l’exploit del precedente Mother’s Milk, e conquistare radio e negozi di dischi: la Californication era appena cominciata. 


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni

Carmine Marino
+ posts

Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.