L’ultimo arrivato – Marco Balzano. Premio Campiello 2015

«Era la fine del ’59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi».
Perché con ogni buona probabilità San Cono era davvero un cesso di paese.
E il ’59, checché se ne dica, al sud era un cesso di anno. Che se una rondine non fa primavera, un intero stormo si. E se un uomo che si trasferisce non fa “migrazione”, centinaia di uomini e donne si. E, probabilmente, centinaia di bambini dovrebbero fare “allarme nazionale umanitario”, e invece facevano solo “quotidianità”

«Non è che un picciriddu piglia e parte in quattro e quattr’otto».
Tralasciando che un picciriddu, nel ’59, per fare “quattro e quattro = otto” impiegava probabilmente più di qualche secondo, è vero, un bambino non partiva a cuor leggero. Però partiva e spesso con lo zaino vuoto e le scarpe bucate. Le calze lunghe e rotte e il berretto sporco, sulle ventitrè. I palmi soffici e gli occhi innocenti, unici elementi traditori dell’espressione più comune che ci si immagina un bambino di nove anni abbia, da solo, impaurito, su un treno: quel broncio da cattivo imparato in tanti anni di giochi, maschera di autodifesa.

E’, più o meno, quello che succede a Ninetto detto Pelleossa, che abbandona la Sicilia per un’ignota Milano. Parte, o meglio fugge, lasciando dietro di sé una madre ridotta al silenzio e un padre che preferisce saperlo lontano ma con almeno un cenno di futuro. Quando arriva a destinazione gli tocca una forzata scoperta della vita e di sé, aiutato solo dal ricordo di lezioni scolastiche di qualche anno di scuola elementare e dalla naturale attitudine alla vita che manifesta il piccolo emigrato siciliano. Ninetto si getta a capofitto in quella città che parla in modo così strano, cammina e osserva senza sosta, cerca, chiede, ottiene un lavoro.
E’ la bellezza della prima volta quella sottolineata da Balzano nel descrivere le sue azioni, tutto ciò che gli accade è filtrato da un vetro di freschezza e novità che tendono allo stupore: il viaggio in treno o la corsa sul tram, l’avventurarsi per quartieri e periferie, lo scoprire all’improvviso la bellezza delle donne, l’incontrare nuovi amici, l’esporsi all’inganno di chi si credeva un compagno di strada e poi alla delusione, lo scivolare fatalmente in un gesto violento dalle conseguenze amare.
In questo teatro sorprendente e crudele, col cuore stretto dalla timidezza e dal timore, dall’emozione per l’ignoto, Balzano trova la voce per raccontare una storia al tempo stesso classica e nuova. E questa voce, con la sua immaginazione e la sua personalità, la sua cadenza sbilenca e fantasiosa, diventa quella di un personaggio letterario capace di svelare una realtà caduta nell’oblio, e di renderla di nuovo vera e vitale. Perché emigrare è una cosa strana. Una tragedia da un lato e un’opportunità dall’altro.
Ma ci sono volte in cui ogni ragionamento circa la sua natura ricade nell’insieme dei vaneggi più insignificanti.
Ci sono volte, sempre più spesso, in cui è semplicemente una necessità.