Italia Vs CEDU: Il caso Viola

A tre anni dall’introduzione di un ricorso che, fin dalla comunicazione al Governo italiano è stato oggetto di grandi aspettative, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso la Sentenza nella procedura Marcello Viola contro Italia che non può che esser definita come “storica”.

Ed invero, questo arresto ha scoperchiato il Vaso di Pandora evidenziando, in tutta la sua chiarezza ed immane potenza un problema “strutturale” del nostro ordinamento che sfocia e si riverbera anche in uno scontro tra diritto e morale.

I Giudici di Strasburgo erano chiamati a pronunciarsi circa la violazione degli gli artt. 3-4-5-6-8 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo posti in relazione al c.d. “ergastolo ostativo” di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario italiano.

Ma cosa s’intende per Ergastolo Ostativo?

In base alla legge italiana, anche chi viene condannato all’ergastolo ha diritto ad alcuni benefici (come la semilibertà) e può usufruire di permessi-premio.

Inoltre, dopo 26 anni di carcere al reo a cui è stato comminato l’ergastolo può essere concessa la libertà condizionale se, durante il periodo di detenzione, ha tenuto una buona condotta ed un comportamento tale da far ritenere come certo il suo ravvedimento.

L’ergastolo ostativo è, dunque, l’eccezione alla regola, in quanto non permette la concessione al condannato alcun tipo di beneficio o di premio, quindi, la reclusione a vita.

Per queste ragioni, ovviamente, l’ergastolo ostativo può essere inflitto esclusivamente a soggetti altamente pericolosi che hanno commesso delitti particolarmente efferati: sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione mafiosa ecc ecc…

L’unico caso in cui un condannato all’ergastolo ostativo ha la possibilità di accedere a benefici premiali, è la collaborazione con la giustizia italiana ai sensi di cui all’art. 58 ter O.P. che si configura, dunque, quale presunzione assoluta di scemata pericolosità sociale dello stesso.

La Corte EDU, chiamata ad esprimersi sul punto, ha offerto una risposta negativa a causa di alcuni dubbi che non possono non riconoscersi come di pregio, autentici e fondati e su cui innanzi tutto noi cittadini dobbiamo seriamente interrogarci.

Ed infatti, dopo aver chiarito l’enorme gravità del fenomeno mafioso, in Italia come in Europa, e dalla scelta legislativa italiana di privilegiare le finalità di prevenzione generale, evidenziava come le scelte di uno Stato firmatario della Convenzione, in materia di giustizia penale, non fossero di competenza della Corte.

Nonostante questo, però, ponendo a base dell’impianto motivo di cui si discute la Sentenza Nr. 313 del 1990 della Corte Costituzionale e dalla funzione centrale della risocializzazione della pena, la Corte sottolineava chiaramente che la tutela della dignità umana impedisce di privare una persona della propria libertà senza che a questi, al contempo, sia garantita la possibilità di essere rimesso in liberà e che lo Stato crei le condizioni necessarie a favorirne il reinserimento nella società civile.

La risposta al quesito, dunque, risulta negativa e si ricollega ad un duplice fattore:

Da un lato che il mantenimento dell’equivalenza tra mancata collaborazione e permanenza della pericolosità sociale significa ancorare la valutazione di pericolosità al momento della commissione del fatto senza tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi compiuti nel corso dell’esecuzione da un reo.

I Giudici di Strasburgo giungono, quindi, all’affermazione “decisiva” che si ritiene doveroso riportare integralmente: “la Corte dubita della libertà della predetta scelta e anche dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato”. 

D’altra parte, non si può tacere un secondo elemento ovverosia la ‘torbida autenticità e spontaneità’ della collaborazione.

La scelta di non collaborare potrebbe, ad esempio, dipendere dal timore di mettere a rischio la propria vita e quella dei propri cari: di conseguenza la mancanza di collaborazione non deriverebbe sempre da una scelta libera e volontaria di adesione ai valori criminali e di mantenimento di legami con l’organizzazione di appartenenza,

D’altro canto, la collaborazione potrebbe anche avere finalità puramente opportunistiche di accesso ai benefici penitenziari.

Questa, quindi, non rifletterebbe in alcun modo una effettiva dissociazione dalla scelta criminale.

Ciò che resta è che l’interpretazione offerta dalla Corte EDU non può essere ignorata dallo Stato e dai Giudici italiani.

Ed infatti il prossimo 22 ottobre la Corte Costituzionale si troverà ad affrontare la questione di costituzionalità dell’art. 4 bis O.P.

Se è vero che nell’Ordinanza di remissione, tra le violazioni, non v’è richiamo all’art. 117 Costituzione è indubbio che la Suprema Corte faccia spesso riferimento alla giurisprudenza europea in relazione al concetto di pena sine die.

Ciò che è altresì certo è che l’Italia, nonostante ne abbia avuto occasione, a mente della c.d. Riforma Orlando di un paio di anni fa, di rivedere un sistema, figlio dell’art.4 bis O.P. chiaramente lesivo dell’art. 27 Cost., sia stata, ancora una volta, “bacchettata” dalla CEDU.

Ancora una volta, dunque, veniamo richiamati da una Giurisdizione superiore che abbiamo, giustamente, legittimato a giudicare il nostro diritto ed operato legislativo ed alla quale non possiamo che rifarci seguendone gli input.

Lo Stato italiano, nella totalità dei suoi tre poteri, Governo, Magistratura e Parlamento, ha oggi il dovere di rispondere, utilizzando il coraggio e la profondità dei principi costituzionali su cui è fondato, all’esigenza morale, etica, di diritto di sciogliere questo nodo gordiano che ci affligge da troppo tempo.

Non si tratta di, come suggerito da alcune maestranze politiche, “chinare il capo” innanzi a poteri sovranazionali ma di fare ciò che è GIUSTO secondo la nostra Costituzione.

E’ inequivocabilmente giunto il momento che lo Stato torni a vestire i panni di soggetto super partes che assume le decisioni non PER i voti ma PER i cittadini, tutti.

Uno Stato che rinuncia alla rieducazione di un condannato compie un passo indietro nel tempo di secoli da un punto di vista sociale.

Uno Stato che richiude un soggetto senza concedergli almeno la speranza che attraverso un ravvedimento possa tornare alla vita libera, si abbassa allo stesso livello di un criminale.

Italia, salvati.

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