Uvaspina di Monica Acito

Un romanzo sul coraggio, la crescita e la resistenza

Uvaspina è un femminiello, o almeno è la prima cosa che si pensa vedendolo, anzi, leggendo di lui. Un ragazzo bello, con un viso androgino e pulito, con gli occhi grandi e pieni di domande, con i lineamenti delicati e la carnagione chiara, un corpo snello ed elastico che occupa uno spazio regale, e con i suoi movimenti disegna linee che sembrano restare impresse nell’aria. Questa storia è frutto della cultura meridionale, della forza dell’amore e delle paure che si affrontano crescendo: con una penna tagliente, Monica Acito, giovanissima scrittrice cilentana riesce a descrivere dinamiche di amara tenerezza, la sua scrittura è decisamente matura, tipica di chi ha vissuto tra le strade e ha saputo guardare oltre le grate delle finestre dei “vasci” napoletani.

Uvaspina ha un nome vero, si chiama Carmine Riccio, ma nessuno riesce a vederlo come Carmine perché tutti sono attratti dalla sua natura così diversa e impalpabile e da quella voglia a forma di chicco d’uva che ha sotto l’occhio sinistro. Per questo lo chiamano tutti Uvaspina: è un soprannome che racconta la sua diversità, la sua essenza selvaggia, quasi velenosa, ma utile per risanare le ferite altrui. Nella sua storia la dolcezza e l’amarezza si mescolano così bene che alla fine si resta brutalmente sconfitti. Siamo a Napoli, a Chiaia, un quartiere ricco che si affaccia sul mare. In una bella casa coi pavimenti lucidi e i divani impregnati di fumo di sigarette abita Uvaspina con sua madre Graziella detta la Spaiata, suo padre Pasquale Riccio e sua sorella minore, Filomena detta Minuccia. Ogni personaggio rappresenta un coacervo di vizi e virtù, ognuno di loro custodisce nel proprio animo un malessere che viene fuori poco a poco tra le pagine. La Spaiata è una “chiagnazzara”, veniva pagata per piangere ai funerali, ma non proveniva tutto dalle lacrime il guadagno: spesso queste donne venivano notate da qualcuno che afflitto dalla perdita del proprio caro aveva bisogno di essere consolato…chissà che non venisse da qui la nota espressione napoletana del “chiagnere e fottere”?

Pasquale Riccio, notaio solo perché obbligato, è proprio uno di quegli uomini che durante il funerale del proprio padre trova consolazione in questa donna, bella, prosperosa, una popolana ignorante e volgare, pronta ad essere accolta da un uomo che le dimostri un po’ d’amore e che le permetta di non svolgere più né quello né altri lavori. È così che nasce il matrimonio tra i due, un’unione destinata ad essere infelice perché si sa che quello che nasce dal dolore troppo spesso è destinato a rimanere tale.

Sono queste le premesse che mettono al mondo la vita di Uvaspina e Minuccia, un fratello e una sorella che esistono uno in funzione dell’altra, per nutrirsi e per annientarsi, un rapporto morboso e doloroso che li rende intrecciati ad uno stesso destino torturatore e inevitabile. Minuccia è una bambina che cresce nell’invidia di non essere bella quanto il fratello, che dentro di sé porta una trottola, uno strummolo, che ogni tanto ha bisogno di iniziare a girare vorticosamente, fino ad esaurire le proprie energie. Non sopporta Uvaspina, non lo tollera perché dentro di sé lo ammira profondamente, ne è gelosa e vive nella brama di avere tutto quello che non possiede e che vede appartenere naturalmente al fratello. Uvaspina è un ragazzo paziente, abituato a sopportare e ad essere spremuto, come un chicco d’uva, incassa i colpi violenti dello strummolo di Minuccia prima di provvedere a se stesso, prima di dedicarsi il suo tempo.

Questo equilibrio familiare così radicato e malmostoso vacilla quando nella vita di Uvaspina arriva Antonio, pescatore dagli occhi di colore diverso, con la libertà nella mente e denti bianchi e pericolosi che esplodono in una risata prepotente. Antonio che insegna ad amare, che affascina con le sue storie di strada, che racconta della sirena Partenope e dell’amore violento consumatosi nel palazzo Donn’Anna. Un amore che accoglie Uvaspina tra le braccia sapienti di Antonio che conosce la vita e la insegna ad Uvaspina che diventa il suo criaturiello. Una cosa troppo bella perché Minuccia non se ne accorga, un amore così vivo sveglia lo strummolo che c’è in lei e anche quello che sembra essere un orizzonte sereno riesce a diventare freddo e dannato.

Con questo suo primo romanzo ha raccontato con molto coraggio cosa significhi crescere, vivere e resistere in un contesto attraente e famelico come Napoli, geograficamente parlando, e, eticamente parlando, come la cultura popolare che spesso richiede uno sforzo estremo per dare dimostrazione di una vita apparente che non è quella autentica. Un romanzo pungente e vero, che mischia la bellezza alla decadenza e la rassegnazione alla speranza, una storia che racconta dell’insaziabile fame d’amore in cui si può crescere. Una ricerca di bellezza anche nella cornice più sporca, una goccia di uvaspina, acre e rigenerante, in un mare di maschere e tragedie.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni