Il racconto mediatico dell’arresto di Messina Denaro ci ricorda l’importanza di una comunicazione più sobria e misurata
Lo scorso 16 Gennaio Matteo Messina Denaro è stato assicurato alla giustizia. La notizia ha fatto il giro del mondo, occupando le prime pagine dei giornali internazionali e lo spazio mediatico italiano. A distanza di un paio di settimane, possiamo forse fare qualche considerazione su come i media abbiano veicolato questa notizia, senza dubbio importante per la storia del nostro Paese.
C’è un primo elemento da evidenziare: la sobrietà dimostrata dalle forze dell’ordine nei momenti immediatamente successivi all’arresto. Si pensi alla Conferenza Stampa tenuta dall’arma dei Carabinieri, durante la quale sono state spiegate le fasi dell’operazione e si è data risposta alle domande dei giornalisti, senza entrare in particolari che avrebbero potuto apparire in quel contesto superflui.
Misurato anche il messaggio del Ministero dell’Interno, che si trova pubblicato sul sito ufficiale dell’istituzione: «Grandissima soddisfazione per un risultato storico nella lotta alla mafia» ha dichiarato Matteo Piantedosi appena appresa la notizia dell’arresto di Matteo Messina Denaro, al suo arrivo ad Ankara per incontrare il suo omologo turco, aggiungendo: «Complimenti alla Procura della Repubblica di Palermo e all’Arma dei Carabinieri che hanno assicurato alla giustizia un pericolosissimo latitante. Una giornata straordinaria per lo Stato e per tutti coloro che da sempre combattono contro le mafie».
Questa stessa sobrietà non è stata mantenuta nei giorni seguenti, quando i servizi televisivi, e non solo, si sono riempiti di immagini e racconti di particolari a volte grotteschi. Si pensi all’indugiare sugli oggetti di valore trovati nel covo del boss, al gran parlare dei preservativi e della presunta vita sessuale dell’arrestato: elementi francamente superflui, che non aggiungono nulla di utile al racconto di una persona che nella sua vita si è macchiata di crimini orribili. Si è criticata, giustamente, la diffusione, con dovizia di particolari, dei dati clinici di Messina Denaro, cosa che lede il diritto alla privacy che deve essere garantito sempre, anche nel caso si stia parlando di un pericoloso criminale; ma il discorso è ancor più complesso.
Credo che, nel racconto di queste due settimane, i riflettori siano stati puntati sull’arresto del latitante, ma poco sia stato raccontato del suo passato criminale, soffermandosi invece sul suo odierno tenore di vita agiato e sulla sua apparente spensieratezza, nel vivere come un normale cittadino. Mi si risponderà che le sue colpe sono così eclatanti che quel racconto sarebbe stato inutile, ma credo che se davvero si vuole fare una lotta alla mafia incisiva e credibile bisogna indugiare, purtroppo, sulle efferatezze commesse da queste persone.
Quello che temo, invece, ascoltando un racconto trionfalistico e sfavillante è la creazione di personaggi a cui vengono accostati termini come “carriera criminale” che fanno apparire queste persone dotate di particolari capacità con le quali sono riuscite a farsi strada nella vita. Accade a volte anche attraverso film e serie tv: penso a pellicole come “Il Padrino” e serie TV come “Gomorra”, dove si racconta degli uomini di mafia come uomini “d’onore”, qualcosa che contrasta in modo eclatante con i loro atti. Pensiamo alla cosiddetta regola della mafia che non tocca i bambini: non vi è nulla di più falso, come ha dichiarato di recente Roberto Saviano. Cosa c’è, infatti, di più terribile che rapire un bambino e scioglierlo nell’acido?
Togliamo, allora, alla mafia quella aura di mito e mistero che la circonda, allontanandoci da termini come super boss, super latitante, perché non c’è niente di “super” nel nascondersi per decenni e sfuggire alla giustizia, dopo aver partecipato all’uccisione di tante persone innocenti. Dobbiamo imparare una sobrietà nella comunicazione: se è vero che la mafia, come tutti noi, vive anche di immagine, fama e reputazione, dobbiamo toglierle anche questo nutrimento, oltre a quello economico come ci hanno insegnato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. È necessario mostrare le miserie, non le glorie della mafia, quanto sia pericoloso e per nulla conveniente avvicinarsi a queste organizzazioni, che non hanno regole ma costrizioni, che non hanno valori ma disvalori, non danno principi ma frustrazioni. Bisogna raccontare le privazioni della mafia di una vita fatta condotta in spregio a ogni principio morale o etica che regola la convivenza civile. Occorre eliminare o mettere all’angolo del racconto tutti gli elementi che possano far apparire anche lontanamente vantaggioso utilizzare gli stessi metodi, togliendo quell’immagine legata al senso di appartenenza che sembra dare la mafia perché quella non è una casa, è una prigione.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni