Qualche buona notizia

Il 2020 in un bilancio (quasi) a freddo

Mi impegno sempre a fare bilanci di fine anno e, di solito, mi riesce abbastanza bene. Eppure oggi è un po’ più difficile, come più difficile è stato questo 2020.
Ma è passata anche l’epifania (che tutte le feste porta via) e mi tocca davvero ricapitolare e ripartire.
Tutti i limiti dettati dalla quarantena o dai colori delle zone, i costanti rischi nei contatti umani, la curva dei contagi onnipresente e quasi sempre in crescita, lo stravolgimento di (quasi) tutte le abitudini di vita consolidate in 27 anni, l’ansia, la preoccupazione, la rabbia.


Quest’anno appena trascorso è stato un bel pugno, dritto in faccia.

Eppure è bastato fermarsi un attimo (e di attimi per fermarsi ce ne sono stati concessi tantissimi in questi 366 giorni!) per rendersi conto che la vera difficoltà è stata il sentirsi fallibili, impotenti, decisamente imperfetti e fragili.
Quest’anno ha tolto molto a tutti, troppo a tanti. La sofferenza fisica, il malessere psicologico, i lutti personali e collettivi, ci hanno colpito spesso e violentemente.
Il 2020 ci ha lasciato un vuoto che, in tanti momenti delle nostre giornate, ci risucchia e ci mostra incantati e assenti agli occhi degli altri.


Ma quindi è tutto da cancellare?

Probabilmente qualcosa sì, quelle perdite che ci logorano ogni singolo istante, che ci fanno sentire soli e inadeguati, tristi e inutili, con quel “avrei dovuto…, avrei potuto…” costantemente in testa: sì, quelle vorremmo cancellarle o, quanto meno, vorremmo poter usare un rewind per vivere meglio quelle relazioni così brutalmente interrotte dalle conseguenze (note o taciute) del diffondersi rapido e inesorabile del virus.
Ma non è tutto da cancellare. E, soprattutto, nulla si può davvero cancellare.
Allora vale la pena guardare ai frutti, agli insegnamenti di quest’anno alquanto singolare, a ciò che c’è rimasto dentro e che ancora brucia. Perché non si spenga non appena trascorso tutto.
Dire che tutto dà una lezione (ciò che non uccide fortifica cit.) ad oggi non scende proprio giù, ma senza accorgercene siamo già dentro ad una rivoluzione.
Abbiamo fatto ogni giorno i conti con tutte le stranezze (per non dire imposizioni) che quest’anno ha comportato, siamo già stati costretti a confrontarci con la nostra solitudine e con i nostri limiti, siamo già cambiati.


È che come al solito ci viene più facile lamentarci piuttosto che prendere atto e progettare, è che siamo bravissimi a guardare a ciò che manca piuttosto che a ciò che c’è, ed è rimasto… nonostante tutto.
Ma, dentro di noi, sappiamo bene ormai che la costrizione non è stata tanto il non poter uscire quanto lo stare soli con noi stessi più a lungo, non è stato tanto il dover rinunciare alle feste, agli aperitivi, ai viaggi, ma alle chiacchiere con gli amici, agli abbracci, alle emozioni che danno le relazioni e le nuove esperienze.
Allora, nel bilancio di quest’anno c’è tanto anche di positivo (non è il termine adatto al momento, ma questo c’è), molto più di quanto pensiamo.
Non solo perché guardando al mondo, in mezzo alle milioni di notizie sulla pandemia, ci sono state anche cose belle, come la sconfitta della poliomielite in Africa dopo decenni, le grandi battaglie per i diritti LGBT e alcune vittorie come la legge che vieta la terapia di conversione per gli omosessuali in Israele, le rivolte di tanti, tantissimi del Black Lives Matter, l’abolizione della pena di morte in Kazakistan, il cambiamento della Costituzione cilena varata da Pinochet e molti altri, segno di riscatto e rinascita per l’intera umanità!
Ma anche perché noi siamo cresciuti, un anno è passato per tutti, indistintamente, e ci tocca tirarne le somme.

Inizio io. [Sperando che, magari, vi ritroviate nel mio bilancio.]
In quest’anno ho imparato che gli sguardi contano tanto, che attraverso gli occhi e le rughe che vi si formano intorno posso guardare al cuore, e che mi mancano gli sguardi seguiti dagli abbracci.
Ho imparato che la famiglia è la parte migliore della mia vita; che è fisiologico, soprattutto per noi giovani, preferire altre relazioni, altri luoghi, altri eventi, dando per scontato i momenti insieme ai propri genitori, nonni, parenti in generale perché magari meno divertenti, forse perché più “ordinari”, ma quest’anno ci ha sbattuto in faccia quanto ci manchino anche le mille domande, anche i punti di vista differenti, anche le discussioni in famiglia, quando a dividerci c’è uno schermo, o il vuoto.


Ho imparato a fare la pizza (giuro!) ma soprattutto ho imparato a farla con mia madre accanto (e con papà che ci fotografa nel mentre, ahimè!).
Ho imparato a lavorare in casa e a condividere uno spazio di lavoro con mio padre (con mamma che si lamenta dei nostri toni di voce, ahimè!).

Ho imparato ad apprezzare il sole in faccia, anche quando si è in ritardo per l’udienza.
Ho imparato che stare accoccolati sul divano a guardare un film non sarà come al cinema ma è di una dolcezza disarmante.
Ho imparato che la Fede va vissuta in presenza, un po’ come la scuola: perché, per quanto la tecnologia vada avanti, la vicinanza fisica dell’altro/Altro, nulla può sostituirla.
Ho imparato che la convivenza con gli altri è tanto più complessa quanto più prolungata, ma guardandomi intorno, sono certa che sia una fortuna. E che le relazioni in generale sono linfa per la mia vita, sono ciò che dà senso e colora ogni giorno, ciò che dà motivo ad ogni singola emozione.
E che c’è un tempo per tutto, che lottare per i propri sogni e per la propria carriera è fondamentale, ma va sempre affiancato da una chiacchiera, un bacio, una passeggiata in compagnia per avere il cuore pieno davvero.


Perché il susseguirsi di cambiamenti continui e inaspettati di questi mesi ha, in particolare, distrutto (quasi) del tutto in me l’illusione di poter bastare a me stessa.
Ho imparato questo e tanto tanto altro.
Ma -in fondo- quel che davvero mi rimane dentro è ciò che è essenziale, che va tutelato e protetto, del quale bisogna avere cura ogni singolo giorno, a nostro modo eh, ma ogni singolo giorno, ché del superfluo si può fare a meno e, anche quando non costretti, vi si può anche rinunciare per ciò che davvero conta.
E lamentarsi dà una soddisfazione momentanea e evanescente, soprattutto quando c’è qualcosa di più grande a limitarci.
Allora parto da me, proprio da quelle fragilità e limiti che si sono acuiti in quest’anno, quelli che ho scoperto e anche un po’ odiato, ma che fanno e faranno parte di me anche domani, anche dopo il vaccino.
E da questi ri-immagino il mondo, partendo dalla mia casa, dalla mia città, ma arrivando all’intero globo. Perché mentre mi sentivo sola chiusa in casa, guardare quel che accadeva altrove mi faceva anche sentire parte di un qualcosa di grande, mi faceva sentire empaticamente vicina anche a chi sta dall’altra parte del mondo e di cui, forse troppo spesso, poco mi è importato.

Allora potrei (potremmo), come buon proposito per l’anno nuovo, aguzzare la vista, e soprattutto il cuore, per riconoscere e apprezzare tutto ciò che c’è e tutto ciò che finora non ho voluto vedere.
Perché anche quando tutto ci è sembrato e ci sembra ancora in stand-by, la vita di ognuno di noi è proseguita senza aspettare “di tornare alla normalità”, perché il mio 27esimo anno di vita è stato questo e non sarà un altro, perché quel che ho fatto, provato, detto in questi 366 giorni rimane, e ciò che non ho fatto, non ho provato e non ho detto in questi 366 giorni no.


Forse bisogna riassestarsi, ricostruire il proprio spazio e la propria agenda, modificare abitudini, rivalutare atteggiamenti, rivedere l’elenco delle proprie priorità. Molto probabilmente ci vorrà tempo e impegno, certamente però siamo chiamati ad iniziare oggi, nei luoghi in cui ci troviamo, nelle difficoltà che incontriamo, con le persone che abbiamo accanto, perché la vita è oggi. Oggi, e non domani.
Buon (più consapevole) 2021.