Finalmente giustizia è stata fatta.
Ci sono voluti ben dieci anni ma la giustizia ha fatto il suo – lunghissimo – corso e si è così arrivati alla verità: il 14 novembre scorso la Corte di Assise di Roma ha condannato in primo grado i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro per l’omicidio di Stefano Cucchi. Si è trattato di omicidio preterintenzionale, in quanto l’evento-morte si è verificato quale conseguenza dall’efferato pestaggio eseguito dai due agenti, i cui danni erano ben visibili sul corpo del ragazzo quando è deceduto – appena sei giorni dopo – nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma.
Tutti abbiamo visto le foto dell’autopsia, tutti abbiamo impressi nella mente i terrificanti lividi presenti sul corpo del geometra romano che lo resero quasi irriconoscibile, a tratti amorfo; il suo corpo martoriato e malnutrito, a testimonianza non solo del “trattamento” ricevuto durante lo stato di fermo, ma anche dell’indifferenza degli operatori – agenti e medici – che sono entrati in contatto con Stefano nei suoi ultimi giorni di vita.
Eppure, nonostante quelle immagini parlassero chiaro e non lasciassero alcun dubbio in sede investigativa per risalire alla causa del decesso, fu inizialmente esclusa la pista del pestaggio. Si parlò di morte causata dalle mancate cure mediche e dalla grave carenza di cibo e liquidi, di caduta dalle scale – come nel più classico caso di violenza –, di morte causata dall’abuso di droga, per arrivare, dulcis in fundo, alla perizia il cui incredibile esito lasciò tutti allibiti :“morte per epilessia”.
Le hanno provate tutte pur di nascondere la verità. Ma come sostiene Legasov – protagonista della serie tv “Chernobyl” – “la verità è sempre lì, che la vediamo o no, che scegliamo di vederla o no. Alla verità non interessano i nostri bisogni, ciò che vogliamo, non le interessano i governi, le ideologie, le religioni. Lei rimarrà lì, in attesa, tutto il tempo”.
Non è stato facile, le indagini sono state oggetto di continui depistaggi, false testimonianze e pressioni di ogni specie – com’è normale che sia quando sul banco degli imputati siede lo Stato – ma se oggi la Corte d’Assise afferma che la morte di Stefano è stata cagionata dalla condotta dei due carabinieri lo si deve in particolare a due persone che non hanno mai smesso di crederci, che hanno lottato con tutte le loro forze, anche quando ogni sforzo sembrava inutile. È stata una battaglia impari, ma non hanno mai desistito e hanno ottenuto ciò che (tutti) volevano: giustizia per Stefano.
La prima è Ilaria Cucchi. Una donna immensa, che ha trovato nell’amore verso suo fratello e nel desiderio di ottenere giustizia il motivo per non voltarsi mai indietro.
La seconda è l’Avv. Fabio Anselmo, noto non solo per essere il legale della famiglia Cucchi ma anche in quanto segue e ha seguito da vicino molti casi spinosi e che hanno suscitato grande scalpore nell’opinione pubblica – e in alcuni casi veri e propri c.d. Cold case – tra cui quelli relativi all’omicidio di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva e il caso Bergamini.
Già, il caso Bergamini. Il corpo del talentuoso centrocampista del Cosenza Calcio Donato Bergamini, detto “Denis”, è stato ritrovato privo di vita sulla Statale Jonica 106 all’altezza di Roseto Capo Spulico (CS) il 18\11\89 e da allora i familiari, e in particolare la sorella Donata, chiedono verità e giustizia. Nel 92’ la Procura di Castrovillari archivia il caso accogliendo la tesi del suicidio sostenuta dall’ex fidanzata – unica testimone diretta – e confermata dall’autista del camion, secondo cui Denis si tuffò sotto il mezzo pesante con l’intenzione di suicidarsi.
Eppure sono molte le cose che non tornano in questa vicenda, due su tutte: non è stata mai trovata una giustificazione a quel drastico ed inaspettato gesto, inspiegabile per chi conosceva bene quel ragazzo “innamorato della vita” e con una grande carriera davanti a sé, ma soprattutto, non è scientificamente possibile che un corpo trascinato per 60 mt – come da atti – non presenti alcun segno e che addirittura le scarpe e l’orologio risultino pulite e intatte al momento del ritrovamento. Dagli atti emergono innumerevoli contraddizioni (sulle quali Carlo Pertini ha scritto una libro-inchiesta dal titolo “Il calciatore suicidato”) il cui comune denominatore non può che essere uno: le indagini furono oggetto di insabbiamenti e depistaggi al fine di non far emergere la verità.
Sembra ci siano riusciti anche abbastanza bene, considerando che dopo trent’anni i responsabili dell’omicidio risultano ancora impuniti. Ebbene si, oggi possiamo parlare di omicidio, in quanto dall’autopsia disposta nel luglio 2017 dalla Procura di Castrovillari su richiesta del legale della famiglia, Avv. Fabio Anselmo, emerge un dato inequivocabile: Denis è morto per asfissia meccanica e solo dopo è stato adagiato sull’asfalto e sormontato dal camion. Adesso non resta che accertare chi ha materialmente ucciso Denis e chi, ma specialmente perché, li ha coperti.
Dopo la riapertura delle indagini da parte del procuratore Eugenio Facciolla sono 3 gli iscritti nel registro degli indagati: Isabella Internò e Raffale Pisano – rispettivamente ex fidanzata e autista del camion – per omicidio volontario e il marito della Internò, nonché poliziotto, Luciano Conte per favoreggiamento. Dopo oltre 30 anni gli inquirenti stanno per chiudere il cerchio e presto la verità verrà a galla.
Questo caso presenta molte analogie con quello relativo alla morte di Stefano Cucchi: un giovane venuto a mancare troppo presto e in circostanze poco chiare, continui depistaggi e insabbiamenti, coperture “dall’alto”, la grande determinazione di una sorella in cerca di giustizia e infine il contributo dell’avv. Fabio Anselmo, l’avvocato delle cause (quasi) impossibili. Spero che presto anche Donata, come Ilaria qualche giorno fa, possa ottenere giustizia e sorridere in un’aula di tribunale. Perché 30 anni sono troppi e il momento della verità è sempre più vicino.
Da queste vicende si possono trarre due conclusioni.
La prima, la più infelice, è che anche nelle forze dell’ordine e negli organi dello Stato in generale si nascondono i “cattivi”: c’è chi ricorre sistematicamente alla violenza, anche quando non è necessario; chi rende false testimonianze pur di nascondere la verità; dirigenti che insabbiano prove e minacciano i propri sottoposti pur di farli tacere; medici negligenti, agenti corrotti e chi più ne ha più ne metta. Insomma, anche all’interno dello Stato si riflette lo spaccato della società e pertanto non si può presumere, in buona fede, la sua innocenza.
La seconda è che la verità prima o poi viene sempre a galla e la giustizia farà il suo corso. È solo una questione di tempo: a volte arriva subito, altre – come per Cucchi – bisogna attendere dieci interminabili anni, altre volte anche di più, ma alla fine arriva. Bisogna avere fiducia nella magistratura. Qualcuno potrà obiettare che anche qui possono annidarsi la corruzione e il malaffare, ma fortunatamente il nostro ordinamento offre diverse garanzie e rimedi che consentono di ovviare ad eventuali situazioni patologiche. Per cui, non resta che aspettare.