Alcune settimane fa, i telegiornali hanno smesso per il tempo di un servizio di raccontarci le cronache di guerra o l’andamento della pandemia. Ci hanno mostrato così un video amatoriale, girato probabilmente da un genitore a bordo campo: in questo video, un bambino piange disperatamente, perché non si sente all’altezza degli altri bambini, giocatori di rugby come lui, sì, ma più alti, più grossi, più forti.
Da un angolo dell’inquadratura, all’improvviso sbuca un altro bimbo, che si avventa contro il primo, lo scuote e gli dice:
“Non importa chi sei. Non importa se sei piccolo, basso, alto o grasso. Bob, tu sei un giocatore di rugby incredibile, lo capisci?”.
Qualche giorno dopo, non troppo lontano da casa mia, durante una partita di pallavolo under 12 una piccola atleta è scoppiata a piangere; senza esitazioni, le avversarie hanno oltrepassato la rete e si sono avvicinate per consolarla e offrirle sostegno, pur non conoscendola.
“Devi essere gentile con il prossimo”. Quante volte ci hanno ripetuto questa raccomandazione: genitori, insegnanti, catechisti, persone anziane. Ma cosa significa oggi essere gentile? È ancora possibile essere gentile in una società egoista e spietata come la nostra, che ci costringe a vedere nemici ovunque? La gentilezza, diceva l’imperatore e filosofo Marco Aurelio, è la delizia più grande dell’umanità. E allora perché è così difficile esercitarla?
L’esercizio, in quanto tale, della gentilezza implica un impegno costante. Bisogna essere un po’ ostinati, per essere gentili in un mondo come il nostro, votato a sentimenti di competizione, invidia, di mors tua vita mea.
Quante volte capita di ricevere risposte scortesi, offensive? Quante volte capita di non ricevere alcuna gratificazione, nonostante l’impegno. Quante volte, incrociando qualcuno per i corridoi dell’ufficio, questi non ricambia il nostro saluto? Eppure, la gentilezza non ha abbandonato nemmeno queste persone: le aspetta, pazientemente, chiusa in un cassetto. Sa che prima o poi risbucherà e si manifesterà in un abbraccio o in una frase di incoraggiamento, come con il piccolo giocatore di rugby, oppure, più semplicemente, in un sorriso o nell’augurio di una buona giornata.
Molti sostengono che ormai la gentilezza sia diventata un piacere proibito, da riservare a pochi intimi e, a volte, neanche a quelli. Ma è davvero così? Prendersi cura degli altri, come sosteneva Jean-Jacques Rousseau, ci rende pienamente umani. Dipendiamo gli uni dagli altri non solo per la nostra sopravvivenza, ma anche per la nostra esistenza. Aggiungerei che anche prenderci cura di noi stessi, se non ci rende più umani, di sicuro ci rende più grati. Anche la nostra mente e il nostro corpo smaniano per ricevere gesti gentili, di cura e affetto.
La gentilezza è uno stile di vita. Non si tratta di essere gentili solamente con le altre persone, o con noi stessi: perché non esserlo anche con gli animali, con le piante e con l’ambiente? Fai la raccolta differenziata, concludi le e-mail sempre con “ti auguro una buona giornata”, aiuta chi vedi in difficoltà, segnati le date degli esami dei tuoi amici e ricordati di fargli un “in bocca al lupo”, non ti spazientire se qualcuno non capisce le tue indicazioni, presta attenzione a chi ti sta parlando.
“Rimani gentile. Non lasciare che il mondo ti renda insensibile. Non lasciare che la sofferenza ti lasci odiare. Non lasciare che l’amarezza rubi la tua dolcezza”
scriveva Kurt Vonnegut. Chissà che possa essere un monito per ognuno di noi.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni