Cinquant’anni fa la pubblicazione del suo terzo e ultimo album, Pink Moon
Una voce che emana calore, anche se somiglia più a un sussurro che scuote la quiete della notte. Eppure, se non fosse stato per la pubblicità di un’automobile e – alle nostre latitudini – per uno spot delle Poste italiane, il nome di Nicholas Rodney Drake, per tutti Nick, sarebbe rimasto confinato nella cerchia dei fini intenditori e degli amanti del cantautorato. Tre album incisi tra il 1969 e il 1972, la refrattarietà ai concerti – soprattutto dopo gli scarsi riscontri commerciali dei suoi primi due lavori – e alle interviste, la morte ad appena 26 anni per abuso di sedativi in una notte di novembre del 1974: ce n’è abbastanza per considerarlo un antidivo, un antieroe, un maudit della musica tanto quanto gli iscritti al «club dei 27» (Kurt Cobain, Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin, Jim Morrison). No, non vale la pena di usare etichette di comodo: più semplicemente, Nick Drake era un sublime e tormentato cantautore, cresciuto con il folk, il blues e il jazz nel cuore. Fin dall’esordio (Five Leaves Left, pubblicato nel 1969), l’interprete britannico sceglie un profilo appartato: nelle sue canzoni non ci sono gli echi della contestazione e della protesta che avevano affascinato tanti suoi colleghi. Al contrario, Drake si cala negli abissi dell’anima, ne scruta le pieghe più profonde, immaginando di dialogare persino con il tempo che scorre (Time has told me, il brano d’apertura del disco).
I personaggi delle sue canzoni non sono sovrapponibili, per quanto abbiano in comune il sottile desiderio di trovare un posto nel mondo: da una parte Betty, la protagonista di River Man, al quale vorrebbe dire tutto ciò che sa sul «divieto di essere liberi»; dall’altra Mary Jane, a cui è dedicata The Thoughts Of Mary Jane,inafferrabile tanto quanto i suoi pensieri.
La ricetta di Five Leaves Left – che asseconda le brume della voce di Drake, cucendole addosso un abito particolarmente raffinato per varietà e originalità di suoni e orchestrazione – sarà rielaborata nel successivo Bryter Layter, inciso nel 1970. Ancora più eclettico del precedente, il secondo lavoro di Drake spazia dagli echi country di Hazey Jane II alle atmosfere jazz di At The Chime Of A City Clock e Poor Boy, prendendosi persino la licenza di occhieggiare apertamente alla musica strumentale (Sunday). Fino alla formidabile apoteosi di Northern Sky, impreziosita dalla collaborazione con l’ex Velvet Underground John Cale: un brano che, dietro l’apparente serenità di un «cielo del Nord» illuminato da una dolce e rassicurante presenza, rivela la predilezione di Drake per una musica scarna, essenziale.
Voce, chitarra, pianoforte: quel che serve per cantare le sue ferite e il suo dolore nello spazio di due notti. Il tempo necessario per registrare le dieci canzoni di Pink Moon, il suo testamento in musica pubblicato il 25 febbraio di cinquant’anni fa. Mezz’ora di navigazione nel mare agitato dello spleen che prende le mosse dalla canzone eponima: una manciata di versi per catturare l’immagine di una luna eccentrica e seducente, davanti alla quale l’uomo si scopre senza difese. Canzoni come schegge che attraversano umori e sensazioni in contrasto tra loro: la malinconia che traspare da Place To Be, le brevi schiarite di Road e Which Will, il vuoto interiore di Parasite. Infine, la sofferta malinconia di Things Behind The Sun, con quel monito che ha il sapore di una sentenza definitiva: «Per favore, guardati da quelli che ti fissano/sorridono soltanto per vederti/perdere tempo». L’amara consapevolezza di chi era pronto a spiccare per l’ultima volta il volo.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni