E se non fossi così triste come ti hanno disegnata?
Ricordo ancora quel giorno. Il giorno della prima prova degli esami di maturità. Era il 2009, e andava forte ancora l’iPod. La sveglia suonò troppo presto, così presto che fuori era ancora buio. Felpa, chiavi di casa, chiavi del motorino, casco, altro casco, cartuccera al posto giusto e via, verso casa della mia amica, con un cinquatino giallo e un po’ scassato.
Non saprei dirvi oggi con esattezza le emozioni che attraversavano il mio stomaco e il mio cuore in quei momenti precedenti alla maturità. Pensavamo a tutto, tranne che all’argomento del tema. Il bar della Villa Vecchia di Cosenza era chiuso, ma il caffè non era ancora una nostra priorità. Oggi non riuscirei a immaginare un risveglio senza l’odore del caffè, ma noi “giovani folli e senza prospettive” eravamo svegli lo stesso, con e senza caffeina, perché quella sensazione di infinito mista ad incertezza che si prospettava davanti ai nostri occhi era in grado di tenerti sveglio per ore e ore, come una droga. Ora potrei dirvi con esattezza che si trattava del futuro che, beffardo, faceva “ciao ciao” con la manina mentre ci aspettava al varco, anche se non lo sapevamo.
Quello che però ricordo con estrema lucidità, ancora oggi come ieri, è la sensazione “fisica” della malinconia. La Malinconìa (o melanconìa), dal greco μελαγχολία, comp. di μέλας «nero» e χολή «bile», propr. «bile nera», è come un pugno nello stomaco, come una sbornia da tequila sale e limone, come qualcosa che fino a qualche attimo prima stringevi tra le mani e due secondi dopo scivola via inesorabilmente come una saponetta sotto un getto d’acqua fredda. È una sensazione che tutti, a qualsiasi età, sperimentiamo almeno una volta nella vita e che difficilmente si dimentica.
La provi a 5 anni, quando il bambino che ti piace e con il quale hai condiviso corse sfrenate per le stanze dell’asilo sceglie volutamente di metterti da parte per la bambina nuova. La provi a 13 anni quando ti siedi per la prima volta sul banco del liceo ancora immacolato, consapevole di quello che hai lasciato ma non di quello che ti aspetta. E la riprovi a 18 quando guardi nuovamente quel banco pieno di frasi e dediche delle amiche scritte con l’Uniposca, ma non sai ancora se prenderai Giurisprudenza o Economia – che “apre tutte le porte” – oppure se dovrai emigrare al Nord e ricominciare un’altra volta tutto daccapo.
Il giorno della maturità ti dicono che crescerai, che finalmente entrerai nel mondo degli adulti e che un numero potrebbe condizionare tutta la tua vita.
E quello stesso giorno, ma di un anno dopo, l’unica cosa che ricordi è la sensazione fisica della malinconia che torna a farti visita, con la stessa intensità dell’anno prima. Basta una canzone, una frase, la copertina di un libro, una foto nascosta in un diario, un cd scarabocchiato con il pennarello indelebile, per riportarti indietro nel tempo, a quell’età in cui tutto era ancora possibile.
Adesso hai quasi 30 anni e tutto questo sembra solo un lontano ricordo. Eppure, con la forza che la contraddistingue, la malinconia è ancora lì, resiste. E si aggrappa ai ricordi del Liceo, alle prime delusioni d’amore, agli sguardi di quelle persone che credevi “amiche per sempre” ma che poi, proprio come hai fatto tu, hanno preso “strade diverse”.
Succede poi che un giorno ti risvegli nel tuo letto, lo stesso di 10 anni fa, ma in modalità Smart Working e con le foto del liceo appese alle pareti, nascoste tra i libri, ed è li che senti quel colpo forte nello stomaco che si chiama malinconia. Fai un bilancio della tua vita, fissi il soffitto sperando che qualcuno dall’alto possa mostrarti il trailer della tua vita da qui a 5 anni, ma l’unica cosa che avverti nell’aria è la malinconia delle cose perdute e che non ritorneranno mai più. Anche quelle cose che ai tempi sembravano terribili e insormontabili, oggi le rifaresti tutte ad occhi chiusi.
Ho sempre avuto paura delle cose belle, perché sono quelle che, dopo averle vissute, spariscono in un battibaleno, come per magia. E allora mi sono sempre posta questa domanda: “Cosa posso fare per far durare per sempre questo momento?”.
Se devo essere sincera, non ho ancora trovato una risposta e spero di non essere la sola a chiedermelo in maniera così insistente nel corso degli ultimi anni. Ma mi sono fatta un’idea di come stanno le cose e ho scoperto che, con molte probabilità, la malinconia serve proprio a questo: a far durare per sempre i momenti più belli e intensi della nostra vita.
Anche se è sempre stata intesa in un’accezione negativa (e anche un po’ triste), in realtà ha un forte potere evocativo ed è strettamente correlata ai sentimenti e alle emozioni. Amore, odio, felicità, tristezza. Ognuna di queste cose rappresenta l’ingrediente di una grande miscela che noi comuni mortali chiamiamo malinconia. “Come sei malinconico!” o “Oggi ho una malinconia…”. Sono frasi che sentiamo ripetere spesso quando si pensa ai bei tempi andati. E se invece fosse proprio custodito nella malinconia il trucchetto dell’immortalità? Godere appieno della malinconia per proteggere i nostri ricordi, non lasciarli sfuggire o consumare dall’avanzare inesorabile del tempo.
E allora forse una risposta me la sono data: che la malinconia, di qualsiasi natura sia, ci rende meno fragili, capaci di ricordare, di difendere le cose belle della vita. La malinconia è quella cosa che rende vivido e reale un bel ricordo ormai passato. È ciò che ci rende felicemente tristi, quando meno ce lo aspettiamo.
La fase della maturità, che oggi molti ragazzi stanno vivendo in modalità “digitale”, potrà apparire agli occhi di molti, terribile. È mancata la corsa al banco più lontano per sbirciare dal foglio del vicino, i caffè e le sigarette a casa degli amici per ripetere a memoria la tesina, le cene fuori con i compagni. Ma nonostante tutto, tra qualche anno, arriverà lei, la malinconia, che vi ricorderà quanto è stato bello, nonostante tutto, affrontare la maturità durante questa piccola rivoluzione digitale in cui ognuno di noi ha fatto la sua parte. Crescendo si impara a convivere con la malinconia e si diventa anche bravi a evocarla quando se ne ha più bisogno. Sulla sdraio del terrazzo di casa sorseggiando un tè alla pesca o al limone, ascoltando una vecchia canzone in autostrada, osservando il sole che scompare dietro l’infinito orizzonte del mare.
Già pubblicato su L’Altravoce dei Ventenni – Quotidiano del Sud 13/7/2020