“Mi fa molta rabbia, mi fa molta rabbia vedere come per 30 anni si è lasciato vivere in pace un uomo che si è macchiato di moltissimi ed efferati omicidi…mi fa molta rabbia vedere quello che adesso sta succedendo come se tutto fosse una cosa naturale”: queste sono alcune parole delle parole pronunciate da una giovane donna, intervistata di recente da una testata giornalistica online, che abita a Campobello di Mazara, vicino alla casa al cui interno si nascondeva Matteo Messina Denaro, alias Andrea Bonafede.
Conosciamo tutti ormai il boss mafioso originario di Castelvetrano, cittadina del trapanese, che è stato latitante per trenta lunghissimi anni. Ultimo padrino di Cosa Nostra, ultima “primula rossa”, figlio di sangue e di esperienza di suo padre Francesco Messina Denaro, anche lui capo mafia latitante negli anni ‘70/’80. Il suo primo omicidio è avvenuto all’età di 18 anni, seguito e istruito dal padre. Braccio destro di Totò Riina, ha partecipato alle stragi di Capaci e via d’Amelio, mandante dell’uccisione terribile e curata fin nei minimi dettagli di Giuseppe di Matteo, impiccato e sciolto nell’acido a soli dodici anni, colpevole solo di essere figlio del pentito Santino di Matteo che doveva pagare per essersi alleato alla giustizia. È stato mandante di tutti gli attentati di stampo mafioso che si sono verificati subito dopo quelli dei giudici Falcone e Borsellino nel ’92, mandante anche dell’attentato in via dei Georgofili a Firenze in cui sono state rese vittime due piccole innocenti, Nadia e Caterina. Una di queste due bambine aveva scritto una poesia, “Il Tramonto” che è diventato poi il titolo dell’operazione di arresto di Messina Denaro. Di seguito riportata: “Il pomeriggio se ne va, il tramonto si avvicina, un momento stupendo, il sole sta andando via (a letto). È già sera tutto è finito”.
Il 16 gennaio 2023 tutti i telegiornali parlavano di lui, della fine di questa latitanza lunga e impenetrabile. Le immagini che scorrevano erano di un uomo ormai vecchio, stanco e malato, quasi come se quella persona e il nome che si porta appresso fossero due cose distinte e separate. Quasi come se fosse una storia ormai già tramontata, quella del boss mafioso e dell’uomo pericoloso in grado di commettere qualunque tipo di crimine. Mentre la sua maschera pirandelliana scorreva semplice e naturale, tutti i telecronisti sottolineavano quanto quello fosse un giorno di riscatto per la giustizia, il giorno in cui finalmente l’operato di Falcone e Borsellino arrivava al suo apice, al traguardo finale, il giorno in cui lo Stato tutto si poteva dire trionfante.
Dunque, è così? Davvero possiamo sentirci tutti uniti in questa missione impossibile di arresto di un delinquente di fama internazionale? Possiamo ritenerci vincitori di un sistema di giustizia che funziona e che tutela il buon cittadino?
Ci sono voluti trent’anni per arrivare ad arrestare un uomo che, a oggi, è troppo vecchio e troppo malato per continuare a nascondersi, un uomo che viveva sereno nella sua casa al centro di Campobello di Mazara, che da Castelvetrano dista meno di dieci km. Un uomo che, seppur con un altro nome, usciva tutti i giorni e andava a cena in pizzeria, come qualunque altro libero cittadino. Un uomo che riceveva continue visite nella sua casa, che andava regolarmente dal suo medico di base, che acquistava abiti di lusso e che aveva ancora appuntamenti “galanti”. Un uomo che non ha mai avuto bisogno di nascondersi davvero per non essere trovato. Un uomo di cui molti parlano bene perché ha sempre aiutato chi ne aveva bisogno, un uomo che ha rappresentato l’autorità in questi trent’anni di latitanza più di quanto sia riuscito a fare lo Stato stesso. Un uomo che aveva sotto controllo il territorio oltre che le persone, che non ha dovuto faticare molto per ottenere gli occhi bassi di chi lo guardava e che invece avrebbe potuto agire e vedere prima. Molto prima.
“La mafia è stata abbattuta” dicevano i giornalisti il 16 gennaio, mentre il nostro Capo del Governo si recava a Capaci davanti alla stele rossa che ricorda l’attentato di Falcone, a rappresentare la dedizione di uno Stato nei confronti della giustizia. Una fotografia incisiva che resterà nei libri di storia: mentre lo Stato vince, la mafia perde.
Eppure, la mafia non si può abbattere arrestando una persona. La mafia non è una persona. Falcone e Borsellino ci hanno sempre insegnato altro: non è bastato il maxi processo, né i 19 ergastoli e i 2665 anni di reclusione per cui sono stati condannati circa 400 mafiosi. Non è bastato tutto questo a fermare la mafia, perché adesso dovremmo credere che basta l’arresto di un singolo uomo? “Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta. Chi parla e chi cammina a testa alta, muore una sola volta”, dicevano i due giudici.
Matteo Messina Denaro ha finito di essere il boss latitante, ora è solo un uomo stanco che ha già trasferito il suo incarico nelle mani di qualcun altro. La mafia è molto più di un boss, di un uomo: è la cultura inquinata e dilagante di chi vuole imporre il proprio potere lì dove manca l’autorità statale. È quella sensazione di appartenere a qualcosa per cui si deve avere il massimo rispetto e per cui si è disposti a fare qualunque cosa sia necessario. La mafia è l’idea di appartenere ad una patria nel momento in cui non se ne ha una perché ci si sente soli o, peggio, si viene lasciati da soli. La mafia è voluta da tutta quella giustizia mancata, e troppo spesso questa assenza è voluta dagli stessi rappresentanti di essa. La mafia è nemica dello Stato perché ne rappresenta le carenze, e ad un certo punto ne diventa dipendente.
“Il tramonto” è un nome adeguato a ricordare il 16 gennaio 2023, giorno che “fa rabbia”, che rappresenta un momento di stallo: lo Stato e la Mafia si sono guardati negli occhi, vibranti e potenti, prima di decidere in quel giorno a chi, la vittoria, doveva essere assegnata.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni
Crediti foto: ilriformista.it