È mezzogiorno del 27 gennaio del 1945 quando le truppe sovietiche del generale Kurockin entrano ad Auschwitz; ad accoglierli solo circa 7 mila prigionieri. Due mesi prima della liberazione il ministro degli interni del Reich, nonché architetto e ideatore della soluzione finale ebraica, Heinrich Himmler, ordinò di distruggere le camere a gas di Birkenau rimaste ancora in funzione: era chiaro che il campo fosse oramai perduto, bisognava arretrare sul fronte tedesco, ma soprattutto, andavano eliminate le prove. A partire dalla metà di gennaio il campo era stato sottoposto così ad un’operazione di evacuazione forzata che oggi noi conosciamo come “marcia della morte”: migliaia di prigionieri già estenuati dalle sevizie dei mesi precedenti costretti a camminare al freddo, senza cibo, senza soste, per decine e decine di chilometri. Chiunque cadesse veniva sparato, naturalmente. Quando perciò le truppe russe varcarono la soglia del campo che porta ancora oggi la sbeffeggiante quanto minacciosa scritta “Arbeit macht frei” – il lavoro rende liberi – ad attenderli erano perlopiù dei bambini, una cinquantina dei quali aveva meno di otto anni. Molti erano sopravvissuti solamente perché usati come cavie per la ricerca medica portata avanti con solerzia e dedizione dall’“angelo della morte” di Auschwitz, così infatti veniva chiamato dai deportati Josef Mengele, il medico in camice bianco deputato alla selezione di chi avrebbe dovuto essere oggetto delle sue ricerche, chi avrebbe lavorato e chi era destinato alla camera a gas. Mengele infatti, l’unico tra i “protagonisti” della soluzione finale a non essere stato catturato, era anche il primo ad accogliere i deportati: con un cenno della mano separava dalla vita i nuovi arrivati, a sinistra le camere a gas, a destra i lavori forzati. I sovietici appena arrivati nel campo trovarono tuttavia anche cumuli di vestiti e tonnellate di capelli pronti per la vendita. E poi migliaia di occhiali, valigie, scarpe, bambole e perfino dentiere. Un numero incalcolabili di reperti testimoni di una storia indecifrabile e inspiegata.
L’Olocausto ebraico infatti pone l’uomo, da quello più semplice fino all’intellettuale più ardito, di fronte ad una delle domande che più di ogni altra tormenta l’uomo sin dagli albori della sua comparsa sulla terra: che cos’è e in cosa consiste il male? Con una differenza però: per la prima volta nella storia ci si scontrava con un evento compiuto senza precedenti, e non tanto o non solo da un punto di vista numerico, quanto per i moventi, le modalità e i protagonisti che lo hanno caratterizzato. Non è un caso che una delle maggiori difficoltà del processo di Norimberga, durante il quale sono stati processati e poi condannati i gerarchi nazisti sopravvissuti o che non erano riusciti a sfuggire dalla caccia all’uomo bandita dagli alleati dopo la caduta di Berlino, consistette anzitutto nella elaborazione di una serie di fattispecie di reato che non avevano avuto precedente formulazione nel pensiero giuridico mondiale; fra questi quella di crimine contro l’umanità. Peraltro, ciò costrinse i giudici di Norimberga a contravvenire ad una delle regole di civiltà che costituiscono una delle pietre angolari del diritto penale moderno, una delle più grandi conquiste giuridiche dell’Illuminismo, ossia il principio nullum crimen, nulla poena sine lege: si stavano giudicando degli imputati di un processo penale sulla base di un reato costruito in corso d’opera in quanto non precedentemente previsto dalla legge. Il fatto che anche il diritto, con le sue rigidità, le sue procedure, le sue istanze di formalità, si sia dovuto piegare alle ragioni della morale e della giustizia da conto del senso di sgomento e di disorientamento generale che ha pervaso la rispettabile ed evoluta società Europea del tempo, che più di ogni altra ha dovuto fare i conti con la versione più pura e nefasta di ciò che noi oggi includiamo sotto la parola “male”.
Solo una pensatrice dotata di una lucidità e di una sagacia senza pari come Hannah Arendt, filosofa ebrea sfuggita per buona sorte alla tragedia dei campi, poteva affrontare la questione con lo spirito neutrale e irreprensibile di chi è disposto a tutto, anche essere completamente obiettivo per quanto ciò possa essere alle volte insopportabile, pur di andare fino in fondo e scoprire la verità, accettandola qualunque essa sia; ovunque essa si trovi. Arendt partecipa al processo imbastito dal neonato Stato Israeliano contro Adolf Eichmann, il gerarca nazista che rifugiatosi nel 1945 in Argentina, fu catturato e portato in Israele dalle forze di intelligence nel 1960, processato poi per genocidio nel 1961 a Gerusalemme, venne condannato a morte per impiccagione. Il risultato delle lungimiranti riflessioni prodotte dalla brillante mente di Hannah Arendt durante il corso del processo sono oggi contenute nella sua opera più famosa “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”. Ciò che la filosofa riesce a dimostrare attraverso le nutrite argomentazioni che percorrono l’opera, ha una forza disvelatrice talmente potente da costringerci a spostare il nostro punto di vista lontano dalla necessità di assecondare l’esigenza tipicamente umana di ricercare una risposta semplice, un capro espiatorio, per dare soluzione a problemi complessi; problemi che in realtà coinvolgono le responsabilità di ciascuno di noi come membri appartenenti al genere umano. Arendt evidenzia come tendenzialmente ciascuno di noi sia abituato a pensare al male con le sembianze di ciò che è demoniaco, mostruoso, spaventoso e raccapricciante, molto distante da ciò che noi definiremmo umano o normale. Crimini molto efferati ci appaiono come compiuti da menti malvagie e senza pietà, eppure il più grande crimine dell’umanità è stato commesso da uomini assolutamente normali, tanti “signor nessuno”, senza moventi o intenzioni specifiche. Uomini che si alzano come tutti noi la mattina, vanno a lavoro, spesso eseguono gli ordini di un capo – per esempio organizzano le coincidenze dei treni in modo che possano essere il più veloci e puntuali possibili, questo era fondamentalmente il compito di Eichmann – tornano a casa, abbracciano mogli e figli, vanno a messa la domenica; non farebbero del male ad una mosca. Dunque in che senso il male è banale? Semplice, il male più grande può solo essere il frutto dell’azione di uomini che non indagano fino in fondo le ragioni delle loro azioni, che semplicemente smettono di pensare. Chiunque di noi poteva essere Eichmann, constata Arendt, bastava essere senza idee, come in uno stato di incapacità a rendersi conto di quel che si sta facendo. Non era una persona priva di intelligenza, era semplicemente una persona completamente immersa nella realtà che aveva davanti: lavorare, cercare una promozione, pianificare, obbedire agli ordini ecc. Sostiene Arendt, “Non era stupido: era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”. Il mostro si genera nell’assenza di pensiero, perché il pensiero, riflettere sulle proprie azioni, richiede di andare in profondità, di attingere alla radice delle cose. È per questo che il “bene” è difficile, perché è “radicale”: richiede uno sforzo e un impegno concreto. Il male è banale perché rimane in superficie, galleggia come conseguenza della sua incapacità di andare a fondo. E se questo è vero, se non esiste una profondità diabolica in uomini del genere significa che tutti, anche gli uomini più comuni come noi, sono capaci dei gesti più efferati nelle giuste condizioni, sotto la coltre fosca e sinistra della superficialità e dell’indifferenza.
La retorica vuota e perbenista che attornia sempre più la “giornata della memoria”, che col passare del tempo vede gradualmente scomparire i reali testimoni delle vicende drammatiche dell’epoca, rischia di allontanarci dal monito profetico racchiuso nelle pagine di quel libro. “Per non dimenticare” è necessario comprendere, interrogare e tentare sempre di rispondere. L’Europa sta vivendo il periodo di pace più lungo della sua storia, e sebbene avvertiamo questa storia come distante da noi l’interrogativo che essa pone si fa sempre più altisonante e permane immanentemente nel corso del tempo: cos’è oggi il male? Dove si trova? Ha mantenuto la sua banalità?
Sì. La risposta è sì. Il male, lo stesso male in tutta la sua banalità, è esattamente a meno di 2000 km da noi, dove esistono campi di concentramento costruiti sulla falsariga di quelli tedeschi, con il beneplacito dei democratici e liberali europei; risiede inoltre nei campi di concentramento cinesi dove vengono internati e torturati gli oppositori del governo; ma risiede anche nelle nostre parole quando acclamiamo gli agitatori di masse che vorrebbero affondare i barconi a largo delle coste italiane; risiede nei nostri occhi che non vogliono che vedere altro che opportunismo e malignità nei confronti di chi fa della solidarietà ai più deboli la propria missione di vita; ma soprattutto, come sempre, risiede nella nostra indifferenza, che per non farci sentire responsabili di quello che ci accade attorno ci consiglia di chiudere un occhio, fare come se le cose non stessero accadendo e fossero distanti da noi. Come quelli che passavano inermi, senza proferire parola, senza porsi domande, davanti i furgoncini dei tedeschi mentre caricavano intere famiglie di ebrei che attendevano inconsapevoli e sgomenti l’infausto destino che li aspettava.
È per queste ragioni che risulta sempre più pericolosa e inaccettabile questa retorica contemporanea che a fronte delle azioni raccapriccianti che ancora oggi l’uomo compie, suggerisce a tutti noi di “restare umani”. Forse non ci rendiamo conto che è proprio nella sfera dell’umano e della sua banale, ordinaria, mediocre normalità che si annida proprio ciò che riteniamo più “disumano” possibile. Probabilmente il tentativo dovrebbe essere proprio quello opposto, ossia non restare umani: spingerci oltre come comunità in modo da creare degli argini culturali che affondino il più possibile le loro radici in quell’attività che comune, questa sì, agli esseri umani li eleva al di sopra di tutte le altre specie: il pensiero.