La guerra esiste da sempre, più o meno da quando esiste l’uomo, nel tempo si è evoluta, ha cambiato forme e strumenti di lotta, ciononostante in fondo la guerra resta sempre dispersione di dolore, povertà e morte.
La guerra tra Hamas e Israele è quella che più ci è “vicina”, ogni giorno sentiamo numeri esorbitanti di morti e feriti. Con uno degli ultimi raid si contano più di 13.000 morti e feriti, molti di loro accolti dall’ospedale di Shifa sotto il quale si è scoperto l’ennesimo tunnel costruito da Hamas. Questa, come tutte le guerre, non ha rimedio né si individua più la sua origine. Di questa guerra ci hanno scandalizzato le immagini esplicite di cadaveri che occupano le strade, donne uccise a freddo, scuole e ospedali assediati. Tra le tantissime foto che circolano, una mi ha colpito particolarmente. La foto riprende un uomo di spalle alle guida di un motorino che gira per le strade sfoggiando in sella il trofeo della sua vittoria: il corpo morto di uomo.
Non è importante sapere chi tra i due sia palestinese o israeliano, sono due esseri umani, uno in vita e uno a cui la vita è stata tolta.
Questa scena così violenta e penosa mi ha riportato alla mente una guerra molto più lontana che avveniva tra milizie armate di lancia e scudo, svoltasi qualche secolo fa: la guerra di Troia. Anche in quella guerra furiosa Achille appese il corpo di Ettore ormai senza vita al suo carro e lo trascinò lungo le mura di cinta della città per dimostrare che colui che fino ad un attimo prima era venerato e rispettato in quanto figlio del re, era diventato il più perdente tra i miserabili, una massa di sangue e polvere e null’altro se non il suo agognato trofeo.
Allo stesso modo l’immagine di quel cadavere portato a spasso su un motorino mentre la folla aizza alla vittoria per averlo ucciso, rappresenta in modo netto quanto ancora siamo fuorviati dall’idea di vincere a tutti i costi. L’orgoglio, l’onore, il potere dell’uno sull’altro sono motivi che si acuiscono durante una guerra, perdendo sempre più rapidamente la lucidità nel riconoscere che si uccidono persone: padri, sorelle, figli. La cultura dell’odio serpeggia in ogni gesto che porta alla vittoria durante una guerra, perdendo ogni concezione di salvezza. Achille ed Ettore erano avversari in un contesto in cui solo con la forza si poteva diventare padroni di un popolo e di un territorio, la loro educazione era volta alla lotta, all’idea che si è uomini solo se si riesce a vincere, e si vince solo se si depreda e si uccide. Ma oggi? Possiamo ancora nasconderci dietro questi “valori” bellici bruciando tappe e traguardi che si sono raggiunti grazie alle lotte per i diritti umani, alle aperture delle frontiere per l’accoglienza, grazie alla pacifica convivenza tra etnie e religioni che esiste, non dimentichiamolo, in moltissimi luoghi del mondo. Com’è possibile dopo tante battaglie ridurre tutto ad una massa che gioisce e grida vittoria nei confronti di un concittadino che porta il corpo di un uomo ucciso in guerra?
Achille aveva vinto due volte: prima uccidendo Ettore e spodestandolo dal suo potere e poi portandosi a casa il trofeo del suo corpo, ma la storia ci insegna che perfino Achille ha dovuto chinare il capo davanti ad un gesto che lo ha disarmato più di qualunque duello. La sua tracotanza si è arrestata davanti a Priamo, vecchio e stanco padre di Ettore che si presenta nella tenda dell’uomo che aveva ucciso suo figlio e ne aveva anche profanato il corpo e l’onore. Priamo si presenta da Achille munito di sola fermezza e compassione, abbandonando rancore e rabbia, chiedendogli di poter riavere quel che resta di Ettore per potergli concedere almeno una degna sepoltura, riportandolo a casa e garantirgli un ricordo dell’uomo che è stato, non del trofeo che è diventato. Se questo gesto di Priamo ci racconta la forza naturale che può avere un padre nei confronti del proprio figlio senza avere più paura della violenza inaudita di chi lo ha ucciso e usurpato, la docilità e l’arrendevolezza di Achille che glielo concede, è ancora più imprimente, tanto da farlo tornare alle radici di cosa significhi essere umani.
Ecco, a questo livello di consapevolezza nel riconoscere le atrocità che una guerra può portare, noi non siamo ancora arrivati. Quel corpo della guerra tra Hamas e Israele per ora resta solo un trofeo, non c’è ancora nessun Priamo che si sia presentato spoglio di ogni ruolo per dire semplicemente “Basta”. Ma quell’uomo non è solo un trofeo, è figlio di qualcuno che lo sta piangendo e rivestendosi della sola forza di essere uomo vorrebbe dire a gran voce “Giungo ora presso di te affinchè io riscatti il cadavere di mio figlio, abbi compassione di me ricordandoti che anche tu hai avuto un padre”.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni