“Caro Theo, non posso farci niente se i miei quadri non si vendono. Ma verrà il giorno in cui si vedrà che valgono più del colore e della vita, seppur misera, che ci sto rimettendo”. Queste parole vennero scritte da Vincent Van Gogh al fratello, ma probabilmente neanche lui immaginava quanto si sarebbero rivelate vere.
A 125 anni dalla sua scomparsa, un documentario sulla vita e le opere di questo grande artista è stato proiettato il 14 aprile scorso in contemporanea in più di 1000 sale cinematografiche in tutto in mondo, a prova di quanto oggi sia ammirato e amato ovunque. In questa rappresentazione cinematografia, “Vincent Van Gogh, un nuovo modo di vedere”, il regista, David Birckestaff, ripercorrendo la vita dell’ artista e delle opere, inserisce i commenti dei curatori della mostra del museo Van Gogh di Amsterdam, del direttore del museo, Axel Ruger, e di storici dell’ arte, oltre alle parole del pronipote di Theo, Vincent W. Van Gogh.
Anch’io sono andata a vedere il documentario, e ne sono rimasta colpita e affascinata. Voglio così ripercorrere con voi le tracce di questo grande artista, raccontandovi in breve la sua vita, le opere e le curiosità apprese dal documentario di Birckestaff.
Van Gogh nacque a Groot Zundert in Olanda, in una famiglia numerosa di un pastore protestante. Anche se i suoi studi di arte furono incostanti, Vincent leggeva molto, parlava più lingue tra cui il francese e l’ inglese, e aveva una profonda conoscenza della Parola di Dio, tanto che si persuase di voler diventare un predicatore. Così, abbandonò gli studi per andare a vivere con i minatori di Borinage, nel Belgio meridionale. Nelle numerose epistole che mandò al fratello, descrisse la fame, la miseria e gli incidenti mortali che segnavano la vita dei minatori e delle loro famiglie, e mandò anche numerosi disegni con colori ad acquerello del paesaggio.
Ma conoscere bene la Bibbia ed essere un fervente predicatore non gli permisero di superare l’ esame per diventare un pastore protestante, così ritornò alla pittura. Seguì corsi di anatomia e disegno prospettico all’ Aja, Bruxelles, passando per Londra, dove ebbe l’ opportunità di visitarne i musei, lasciandosi influenzare da vari artisti. Nel 1883 fu nel Brabante e qui visse con i contadini. Vedeva nel duro lavoro di questi un esempio della vita che un buon cristiano doveva condurre per essere più vicino a Dio. Dietro “I mangiatori di patate” ci fu un grande studio da parte di Vincent, quindi si può immaginare il suo profondo rammarico nel vedere la tiepida accoglienza che ricevette il suo quadro quando venne mostrato al pubblico…
Così, nel 1886 decise di recarsi in Francia, dal fratello Theo, che era diventato un famoso mercante d’ arte, e a Parigi seguì lo studio di Fernand Cormon. Qui entrò in contatto, tra gli altri, con gli impressionisti e i divisionisti o puntinisti, e la sua arte maturò.
Fu influenzato anche dalle pitture giapponesi che erano molto in voga all’ epoca e ne copiò alcune, anche se con colori e tratti diversi, come “Il samurai”, utilizzando dei colori molto pastosi, che quasi emergono dal quadro e che in alcuni casi sono molto intensi e in altri più chiari.
Parigi, però, iniziò presto ad essere asfissiante, così Vincent decise di spostarsi ad Arles, nel Sud della Francia. Visse nella famosa “casa gialla” ed ebbe come soggetti sia gli abitanti del paese, che posavano per lui, sia la natura rigogliosa che tanto amava. La sua tavolozza si colorò soprattutto di giallo, colore che inonda le terre soleggiate del Mediterraneo; e fu proprio in questo periodo felice che dipinse “I girasoli”.
Sperava che ad Arles lo raggiungessero altri artisti, ma solo Gauguin andò ad abitare con lui. Dopo l’ ennesima discussione sull’arte Van Gogh cercò però di uccidere l’ amico, che andò così via da Arles. Come famoso gesto autopunitivo, Vincent si tagliò un orecchio e nel 1889 si fece internare nella clinica per alienati mentali di Saint-Rémy de Provence. Iniziò però per la sua attività un periodo molto prolifico, in cui l’ arte diventò “parafulmine” della sua malattia: è proprio qui che nacquero gli “Iris”.
In seguito decise di riavvicinarsi al fratello, ma non sopportando il trambusto della metropoli parigina si sistemò in un paese vicino, Auvers-sur-oise.
Sebbene fosse accudito dal medico Gachet, che era anche un collezionista e amico di altri pittori, la sua salute peggiorò e la mattina del 27 luglio del 1890 decise di incamminarsi nei campi e spararsi.
Morì solo alcuni giorni dopo, con una lenta agonia. Essendo però protestante e suicida, il prete del paese si rifiutò di celebrare la messa funebre, e il fratello Theo e gli amici, per ricordarlo, si riunirono nella sala da pranzo dell’ albergo che lo ospitava, dopo aver attaccato alle pareti alcuni suoi dipinti, che ancora si stavano asciugando.
Di lì a poco morì anche Theo, e venne sepolto accanto a lui.
Birckestaff chiude il documentario con una frase di Van Gogh: “l’ arte è lunga, la vita è corta”. Si tratta un aforisma di Ippocrate, legato all’ arte medica, a cui Van Gogh dà un nuovo significato, affermando che la vita è misera e l’ unico modo per uscirne è compiere cose grandi.
Proprio come lui, che ha vissuto miseramente, compiendo però grandi opere e (forse, folli) gesti.