Di Davide Nappi
Ben prima di Svevo e Joyce, prima di Sartre. La prima testimonianza di un ipocondriaco e sofferente flusso di coscienza, di monologo su e con se stessi. Crudele, geniale, cinico, polemico.
Un libro non per tutti, ma neanche per molti. “Non metterei le Memorie in mano di chi non è sufficientemente forte per reggere alla loro tensione, o sufficientemente innocente per non restarne avvelenato” – scrive Mirskij.
Perché palesemente il libro non fu pensato per piacere. Ma forse non fu pensato. E forse non fu un libro.
E’ che le Memorie trascendono da quello che è, ora, e che era, allora, letteratura e arte. Occupano un posto a sé, quel posto riservato alle grandi rivelazioni mistiche dell’umanità.
“Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente.”
Così inizia “Il Sottosuolo”, la prima delle due sezioni in cui è diviso il volume. Monologo acuto di critica sociale, mette in ridicolo il sentiero che il positivismo propone come strada maestra per il benessere e la felicità, una malta tra scienza e ragione che inevitabilmente si sgretola sotto il peso del sottile quanto intenso desiderio di sofferenza insito in ogni uomo. Un bramare segreto e inconscio di autoumiliazione e sporcizia che ha a che fare con l’affermare la propria Volontà e non con la Ragione. E’ anzi serenamente irrazionale.
“Mi è venuta voglia di raccontarvi, signori miei, vi piaccia o no ascoltarmi, come mai io non sia riuscito a diventare neppure un insetto. Vi assicuro, con la massima serietà, che molte volte ho desiderato di diventare un insetto. Ma non ho ottenuto neppure questo onore.
Vi giuro, signori miei, che avere una coscienza troppo lucida è una malattia, una vera malattia nel pieno senso della parola.”
E’ la coscienza il suo dramma, il fatto di non riuscire ad evitare l’interiorizzazione della complessità del reale. Di qui la sua mai nascosta inettitudine a vivere in una società che vuole matematizzarlo, società dell’apparenza e del “necessario perché condiviso”, e il suo rifugiarsi nel sottosuolo, intimo cantuccio esistenziale, meccanismo di difesa che gli permette di isolarsi dall’esterno, nauseante. E’ qui che, tra sensi di colpa e livori mal repressi, vive il protagonista, l’unica condizione in cui 2+2 = 4 può e deve essere opinato.
E mentre una neve fradicia e sporca cade a macchie su Pietroburgo, inizia la seconda parte del racconto. “A proposito della neve fradicia” è un tuffo nel passato che esige la trasformazione da monologo a racconto in prima persona. Sedici anni prima il protagonista era un impiegato della burocrazia amministrativa del suo paese, già un uomo fortemente tormentato dal senso d’inadeguatezza nei confronti dei suoi colleghi e del mondo in generale. Varie azioni meschine scandiscono la scalata verso l’abiezione dell’uomo del sottosuolo, che raggiunge l’apice – o meglio il fondo – quando conosce una prostituta, Liza, a cui fa credere di essere un benefattore e di provare dei sentimenti reali. Lei gli crede, ma quando tre giorni dopo la ragazza va a trovarlo a casa, perché fiduciosamente convinta che lui le avrebbe davvero cambiato in meglio la vita, lui le fa violenza e le lascia con disprezzo del denaro, che la poverina rifiuta fuggendo in lacrime.
Cattiveria assoluta e gratuita? Si, ma soprattutto no. E’ l’ultimo tentativo di sfogo delle proprie frustrazioni su un soggetto ancor meno integrato nella società da parte di un inetto sveviano a cui, difronte alla consapevolezza della propria diversità, non resta che rifugiarsi nel limbo di irrazionalità, benché di ipersensatezza, intimamente più personale:
il Sottosuolo.