Devo ammetterlo, è stato strano osservare come queste settimane ci abbiano cambiato così profondamente, sebbene in modo così graduale. Quando ha cominciato a circolare la notizia di questo nuovo virus che si diffondeva a velocità impressionante dalla Cina, tutti, a prescindere dalle reazioni psicologiche personali, abbiamo percepito la cosa allo stesso modo: con distanza. La distanza propria del diniego, ossia di quell’operazione mentale che consiste nella rimozione o negazione di ciò che sappiamo esistente. La cosa non ci toccherà mai e, se dovesse toccarci, non toccherà me.
Boom. È arrivato. E il periodo precedente al covid-19 ora sembra un lontano ricordo, perché eventi come questo segnano un solco nella storia di una generazione, un prima e un dopo, determinando un improvviso e repentino invecchiamento del tempo.
Nelle fasi snervanti di questa quarantena mi sto chiedendo – tra un sigaro e una diretta streaming – quanto e cosa c’è da imparare da tutto questo marasma? Quanto ci sta cambiando quello che sta accadendo? Non me ne vogliate, ma anche la psicoterapia traccia un prima e un dopo nella vita delle persone, e a me ha insegnato ad osservare le vicende e le emozioni che mi colpiscono da almeno più di un solo punto di vista, in modo che io mi domandi sempre cos’altro sia possibile scorgere nelle esperienze che affronto, specie quando queste sono negative.
L’occidente dei millenial ha dovuto fare i conti per la prima volta nella sua storia con la sua fragilità e con quella dell’essere umano in generale. Fragililtà è la caratteristica di ciò che si rompe facilmente, come la vita umana, come i tornelli della stazione di Milano Centrale di un sabato sera di marzo, come i muri delle nostre case virtuali e fisiche, come le barriere del cinismo individualista che il nostro tempo ci ha insegnato tanto ad osannare. In un mondo che ci ha sempre chiesto di andare veloci, di non fermarci mai, di inseguire spasmodicamente il modello dell’efficienza perfetta, ci siamo trovati costretti, malvolentieri, a stare fermi. Chiusi nelle nostre case.
Il mondo perciò non può essere più lo stesso.
Allora la prima cosa che abbiamo imparato è che la libertà è una possibilità, anche quando scegliamo di non volerla. Magari lunedì sera del 9 marzo avremmo comunque scelto di non uscire, ma il fatto che non avessimo scelto noi di farlo ci ha comunque infastidito. La domanda è quindi che senso possiamo imprimere a quella scelta anche quando questa non è minacciata?
Abbiamo anche imparato che Totò nella livella non si sbagliava affatto e che le gerarchie sociali sono pienamente reversibili di fronte a eventi simili. Succede così che l’Africa e l’Europa possono scambiarsi di emisfero. Succede così che apprendiamo che siamo tutti uguali, tutti sulla stessa maledetta barca. E stiamo altresì imparando che gli occhi dell’altro non potranno mai rappresentare un nemico per noi attraverso lo spirito di solidarietà che sta attraversando in questo momento tutto il paese, da nord a sud, proprio mentre la mano altrui potrebbe essere un rischio o un’incertezza per la nostra salute. Ci sono occhi poi che vorremmo avere sempre puntati addosso, li vorremmo al collo come baionette letali di fronte alle quali poter danzare felici, ed ora invece sono così distanti da noi.
Abbiamo scoperto che può esserci un significato di patriottismo che non esclude nessuno ma tutti unisce, pur affermando l’orgoglio e l’identità di un paese; quella che scorre tra le voci esuberanti dei balconi, da Napoli a Roma, fino a Palermo per poi catapultarsi a Milano. Ci siamo riscoperti comunità, e quell’inno, quella marcetta altisonante e fiera che rimbomba dai palazzi per raggiungere con forza i letti degli ospedali, non si ferma più di fronte alle divise della nazionale di calcio.
Abbiamo perciò imparato che il razzismo e l’individualismo sono come dei boomerang: pensi di averli lanciati talmente lontano da non poter tornare più indietro, ma ecco che all’improvviso fanno ritorno in picchiata per colpirti in volto.
Abbiamo anche imparato che la politica può essere diversa e che noi possiamo essere diversi rispetto ad essa: sappiamo allontanare la tentazione di cedere allo sciacallaggio quando riusciamo a vedere lo sforzo di un uomo, che la politica non la fa di professione, spendersi con sofferenza e dignità di fronte al paese intero. Non a caso è un professore: è abituato a spendersi a prescindere da quello che può tornargli indietro.
Abbiamo imparato che i telegiornali nazionali possono parlare della sanità del sud senza che siano le Iene o Striscia la Notizia a farlo per prime, così che tutto il paese prenda coscienza che se il servizio sanitario è nazionale è fondamentale edificare questa “nazionalità” attraverso azioni concrete, che possibilmente partano dal centro. E soprattutto, consentitemelo, stiamo comprendendo sulla nostra stessa pelle che è meglio salvare una vita in più domani che una banca e una paio di finanziarie oggi.
Stiamo capendo infine l’importanza della bellezza collaterale. Questo concetto – preso in prestito dall’omonimo film – è di una potenza trasversale capace di trasformare la visione del mondo di ciascuno di noi. Il suo segreto sta nella capacità di riscoprirsi dentro quel profondo sentimento di solidarietà e di cura verso il mondo e gli altri. Solo in questo modo possiamo carpire la bellezza e l’unicità di ogni gesto o momento, non solo perché non tornano più indietro, ma soprattutto perché non è scontato che essi accadano o siano accaduti. Le cose non sono tenute ad essere belle, eppure lo sono; anche quando non lo sembrano.
C’è stato un prima.
Ci sarà un dopo.
E sono convinto che sarà meglio, perché avremo imparato.