A sedici mesi dall’inizio della guerra in Ucraina, leggiamo sempre più spesso segnalazioni di crimini di guerra e contro i civili; tra questi, hanno senza dubbio colpito l’opinione pubblica i racconti e le testimonianze di violenze sessuali.
Ieri, 19 giugno, ricorreva la “Giornata internazionale contro la violenza sessuale nei conflitti armati”. Introdotta proprio il 19 giugno del 2015 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la ricorrenza ha sin da principio avuto il duplice obiettivo di porre fine a questa pratica disumana e di onorare le migliaia di vittime della violenza sessuale nei conflitti.
La data del 19 giugno è stata scelta perché coincide con l’adozione della Risoluzione 1820 del 2008 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto la violenza sessuale come una strategia di guerra e come una minaccia alla pace e alla sicurezza mondiali. Nella Risoluzione, non solo si riconosce che lo stupro e le altre forme di violenza sessuale costituiscono crimini di guerra e crimini contro l’umanità ma, bensì, se ne chiede l’immediata e completa cessazione da parte di tutti gli attori coinvolti in un conflitto armato.
Il tema – nonostante noi occidentali tendiamo a volerci convincere del contrario – è attuale. Come ha osservato l’ex Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon, “La violenza sessuale rappresenta una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, una grave violazione del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, e uno dei principali ostacoli nel post-conflitto per la riconciliazione e lo sviluppo economico” ed è riconosciuta come “una strategia deliberata per distruggere, controllare e intimidire le comunità”.
La violenza sessuale, come rilevato dal Rapporto della Commissione Internazionale d’Inchiesta sul Darfur del 2005 – che definisce lo stupro come qualsiasi invasione fisica di natura sessuale perpetrata senza il consenso della vittima, cioè con la forza o la coercizione, come quella causata dal timore di violenza, dalla costrizione, dalla detenzione – “può essere sia un crimine di guerra, se commesso in tempo di conflitto armato internazionale o interno, sia un crimine contro l’umanità, se fa parte di un attacco diffuso o sistematico contro i civili. “
Parte del volto della guerra e dei conflitti è sempre stato quello relativo all’uso della violenza sessuale come mezzo per raggiungere fini economici, politici e militari. Il motivo? Lo stupro è un’arma silenziosa, poco costosa e molto efficace. È in grado di produrre danni psicologici irreversibili, sia per la persona che lo ha subito sia per la comunità – non si dimentichi, peraltro, che molti casi rimangono non denunciati a causa della delicatezza del tema e dello stigma che lo accompagna. Come ha realisticamente e drammaticamente ricordato Luis Moreno Ocampo, in relazione a quanto accaduto in Darfur, “lo stupro è usato per uccidere la volontà, lo spirito e la vita stessa“.
La Giornata internazionale contro la violenza sessuale nei conflitti armati offre lo spunto per riflettere anche su un’altra tematica. L’accostamento del concetto di genocidio a questo tipo di violenza è emerso per la prima volta nel 1998 nell’ambito del procedimento contro Jean-Paul Akayesu da parte del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda: la violenza sessuale è un crimine che può contribuire a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in particolare attraverso atti materiali denominati “lesioni gravi all’integrità fisica e mentale dei membri del gruppo” e nelle “misure destinate a impedire la riproduzione del gruppo”. Nella giurisprudenza internazionale, la sterilizzazione forzata, il controllo delle nascite, il divieto di matrimonio, la segregazione dei sessi e le mutilazioni sessuali sono state ritenute le forme più evidenti dell’intento di rimozione della capacità riproduttiva di un gruppo. Ad esempio, il Tribunale Penale per la ex Jugoslavia ha definito l’inseminazione forzata come “la reclusione di una donna sottoposta a stupro con lo scopo di alterare la composizione etnica del gruppo”. In particolare, nella sentenza Karadžić and Mladić, si è affermato che in alcuni campi di prigionia si praticava lo stupro allo scopo di generare figli di origine serba; le donne venivano poi recluse per impedire l’aborto.
I conflitti mondiali hanno permesso di portare all’attenzione dei tribunali internazionali tutte queste tematiche. La giurisprudenza penale internazionale ha peraltro fatto rientrare nella definizione di “violenza sessuale” nei conflitti non solo l’atto sessuale stesso, bensì anche le offese verbali di carattere sessuale, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata e qualsiasi altra forma di violenza sessuale direttamente o indirettamente collegata (temporalmente, geograficamente o causalmente) a un conflitto.
Nelle guerre civili dell’ultimo secolo, più del 90% delle vittime sono state civili e, in tali circostanze, le donne e i bambini sono stati particolarmente esposti alla violenza sessuale. Ma qualcosa negli ultimi vent’anni sta cambiando, quantomeno sul piano politico e istituzionale. L’ONU ha anche varato, nel 2007, il primo programma di contrasto di caratura internazionale: l’UN Action Against Sexual Violence in Conflict, una piattaforma in cui convergono 24 diverse entità delle Nazioni Unite con il fine di contrastare la violenza sessuale nei conflitti attraverso la prevenzione, la tutela dei sopravvissuti e il perseguimento dei responsabili.
La violenza sessuale è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse nel mondo: mi piace pensare che la Giornata internazionale contro la violenza sessuale nei conflitti armati sia un modo per esprimere solidarietà verso tutte le vittime (donne, ragazze, uomini e ragazzi) che lottano per vivere – semplicemente – in dignità e pace, serrati da crisi umanitarie, e per cambiare l’approccio di ognuno di noi nei confronti di questa “epidemia silenziosa”.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni