Lessi un libro l’estate scorsa che mi sconvolse. E non tanto perché nel libro si parlava di Groenlandia e io ero al mare ad agosto, con la calura, i tormentoni di Giusy Ferreri e tutto il resto, quanto perché fu una delle delusioni più cocenti che io avessi mai avuto modo di sperimentare nella vita. Una sorta di palo letterario in piena faccia, insomma.
Il pioniere del genere…oppure no?
Il libro è famosissimo. E devo dire che la cosa non mi rende particolarmente felice. Non tanto perché ciò significa che – probabilmente – io, a differenza del resto del popolo, non sono riuscita ad apprezzarne la bellezza, quanto perché da molti questo romanzo è considerato il pioniere del giallo scandinavo. E questa convinzione mi fa arrabbiare, perché sebbene “Il senso di Smilla per la neve” sia effettivamente il primo libro -insieme alla trilogia “Millenium” di Stieg Larsson – nordico ad aver raggiunto un certo successo mondiale (è stato pubblicato nel 1992), il filone successivo che ne è scaturito – non tanto dalla struttura di questo romanzo, quando, piuttosto, dal successo che quest’ultimo ha riscosso – è completamente diverso.
Un viaggio verso nord
“Il senso di Smilla per la neve” è confuso, probabilmente è il libro più confuso che io abbia mai letto.
Di questo romanzo ricordo, principalmente, una sequenza di dialoghi senza alcun senso. Ricordo anche capitoli che non si incastrano e un ripetersi tutto uguale di scene e di luoghi. Forse Peter Hoeg voleva appositamente scrivere una storia totalmente slegata tra il suo passato ed il suo futuro; se questo era il suo intento, beh, c’è riuscito.
Ma anche “Se una notte d’inverno un viaggiatore” è un libro apparentemente caotico: apparentemente, appunto. Eppure Calvino sapeva bene quello che voleva trasmettere ai suoi lettori. Non sono contro quelli che io definisco “libri uragano”: li leggi, non ci capisci niente, eppure ne esci cambiato. “Il senso di Smilla per la neve” mi ha ricordato, piuttosto, i minuti di panico che precedono le mie uscite serali quando sono in ritardo, dove finisce sempre che raccatto i vestiti che mi capitano sottomano e poi passo tutta la sera a lamentarmi di quanto io sia vestita male.
Per non parlare della seconda parte del romanzo. Ad un certo punto – di questo, per cento, il lettore si rende conto – Smilla finisce su una nave che va in Groenlandia. Da lì in poi c’è il buio più totale, e non solo perché il sole sparisce davvero mentre navigano verso nord. Non si capisce l’obiettivo della storia e tantomeno il filo logico che lega le azioni dei personaggi. Il libro è di una noia mortale, quella che ti fa saltare le pagine convincendoti che basta dare un’occhiata qua e là per capirci qualcosa e leggere una parola su quattro (un po’ come quando studiavo capitoli che credevo non mi avrebbero mai chiesto all’esame. Credevo…). Tanto che credo di averlo abbandonato prima della fine. E se non l’ho fatto beh, evidentemente non ricordo il finale.
Mi sento di salvare solo un aspetto di questo romanzo. La madre di Smilla era un’inuit groenlandese, e Smilla ha dentro sé quest’anima profondamente nordica, tanto da non essere mai riuscita ad adattarsi alla vita di Copenaghen. Smilla è selvaggia e solitaria, è una ragazza che un po’ ti attrae e un po’ ti spaventa. Smilla e le incursioni nella cultura groenlandese potrebbero – forse – valere il viaggio.
Resta che, per me, “Il senso di Smilla per la neve” è uno dei titoli più belli che siano mai stati inventati. L’ho sempre trovato giocoso, intrigante, quasi onomatopeico. Un po’ come “Che siano tanti i mattini d’estate” di Kavafis. Peccato che poi il romanzo sia, beh, quello che è.