New York e l’11 settembre: un canzoniere sospeso tra rabbia e speranza
Pochi giorni dopo l’attentato alle Torri Gemelle, un uomo accosta la sua macchina a bordo strada. Sul marciapiede cammina pensoso il cantore dell’America contemporanea, l’uomo che ha raccontato le storie di chi ha cercato (spesso senza fortuna) una via di fuga dall’ordinario: emarginati e disillusi, disoccupati che s’improvvisano ladri e poliziotti che infrangono la legge per amore di un fratello scapestrato. L’automobilista rallenta, abbassa il finestrino e sussurra: «Ehi, Bruce, abbiamo bisogno di te».
Bruce è ovviamente Bruce Springsteen, il cui ultimo album di studio – il pluripremiato The Ghost Of Tom Joad – risale al 1995. «Abbiamo bisogno di te»: il Boss si rende conto che la sua testimonianza sugli attentati dell’11 settembre non può mancare. E, dopo aver partecipato al memorabile concerto in onore delle vittime degli attacchi terroristici (America: A Tribute To Heroes, trasmesso in diretta televisiva 10 giorni dopo la tragedia), Springsteen elabora in musica il lutto di un intero paese: The Rising, pubblicato nell’estate del 2002, non è soltanto un viaggio emotivo tra le macerie (materiali e morali) del World Trade Center e, di riflesso, degli Stati Uniti feriti a morte. L’album del rocker del New Jersey è un’antologia di volti che tradiscono ora la rabbia, ora la speranza: c’è il pompiere arrivato a Ground Zero che dissimula la paura e lo stordimento, cercando un bagliore di luce negli occhi dei sopravvissuti e nel cielo rossastro della sera (The Rising); c’è la vedova di un vigile del fuoco che ricorda il sacrificio del marito, inghiottito dalla polvere e dalle fiamme (Into The Fire). C’è, soprattutto, l’immagine di un cielo desolato che incornicia l’assenza della persona amata (Empty Sky), per la quale il protagonista nutre un sottile desiderio di vendetta («I want an eye for an eye»), prima che il suo dolore si sciolga nell’immagine potentissima di un arco ricavato da un albero che rappresenta contemporaneamente il bene e il male («I cut my bow from the wood/of this tree of evil/of this tree of good»).
Springsteen ha ceduto il testimone a interpreti e artisti diversissimi tra loro per genere e ispirazione, ma accomunati dall’esigenza di dare voce all’indicibile. E così, l’orrore del 9/11 diventa per Leonard Cohen l’occasione per mettere a confronto le colpe degli Stati Uniti e la ferocia degli attentatori (On That Day, pubblicata nel 2004). I Beastie Boys decidono invece di scrivere «Una lettera aperta alla città di New York» (An Open Letter to NYC, per l’appunto, anch’essa datata 2004), in cui il terzetto più famoso dell’hip-hop americano celebra l’unicità della Grande Mela come modello di integrazione e di convivenza tra popoli e culture che rappresentano ogni angolo del pianeta.
Con la sua I Was Here (2011), Beyoncé si cala nei pensieri di chi, sentendosi ormai vicino alla fine, medita su tutto ciò che ha fatto per lasciare una traccia del suo passaggio su questa terra. Una rivendicazione commossa, più che un semplice atto di gratitudine: «I was here, I lived, I loved, I was here».
La più bella dichiarazione d’amore verso la città ferita e poi risorta è però Empire State Of Mind (2009), interpretata in tandem da Jay-Z ed Alicia Keys. L’omaggio alla «città che non dorme mai» sembra essere una versione aggiornata della New York consacrata dalla voce di Liza Minnelli: lì una dimensione quasi sognante, perfettamente in sintonia con le atmosfere dell’omonimo film di Martin Scorsese; qui un romanzo di formazione che mette insieme le bande criminali, gli eccessi della cultura rap, la passione per gli Yankees e storie di prostituzione. Non c’è dettaglio (più o meno gradevole) che resti fuori dall’inquadratura. Neppure le Torri Gemelle: un mito a cui augurare «lunga vita». Potere della musica. E di New York.