Le corse dei cavalli, l’arte del raggiro, i rovesci della vita: il film della vita di Gigi Proietti, il film della nostra vita
Gli anni Settanta del cinema italiano prendono mille direzioni: i grandi maestri sono ancora in attività, ma alle loro spalle avanza una nuova generazione (Bellocchio, Bertolucci, Ferreri) che elabora uno sguardo eccentrico e trasgressivo, capace di proiettare sullo schermo ciò che prima era indicibile e invisibile. Come spiegare altrimenti l’autodistruzione dell’uomo nel folle gozzoviglio de La grande abbuffata o la rottura insanabile delle regole dell’attrazione, riscritte nel chiuso di un appartamento da Marlon Brando e Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi? Allo stesso tempo, il nostro cinema assiste al trionfo del film di genere, con il poliziottesco seguito a ruota dalla commedia sexy. E la commedia classica, di cui siamo stati maestri indiscussi? A dispetto della popolarità di autori come Loy, Monicelli, Risi, Salce e Comencini, il genere più popolare del nostro cinema vive una fase di transizione: scomparsi o usciti di scena i maestri della commedia degli anni Cinquanta e Sessanta (De Sica e Germi su tutti), produttori e registi scoprono il film a episodi (come Sessomatto di Dino Risi, anno 1973, Di che segno sei?, regia di Sergio Corbucci, uscito nel 1975, e Signore e signori, buonanotte, una satira della televisione a più voci datata 1976) oppure cercano l’incasso facile con una nuova generazione di attrici (Fenech, Guida, Cassini, Rizzoli) che accendono le fantasie erotiche degli spettatori e scatenano le ultime sollevazioni inviperite della censura.
Resta però ancora inevasa la risposta alla domanda precedente: c’è ancora spazio in questa fase storica per una commedia tradizionale, estranea alle tinte forti e alle coloriture grottesche di quegli anni? Quando Stefano Vanzina, in arte Steno, porta nelle sale Febbre da cavallo – siamo nell’autunno del 1976 – la reazione della critica è piuttosto perplessa: «Non fa ridere», sentenzia Il Messaggero; «Un mediocre incalzare di aneddoti e barzellette mediocri, di battutine facili, di scherzi e trovate altrettanto prevedibili [e] insulsi», annota il Corriere della sera. Una bella accoglienza, non c’è che dire. Eppure, quell’opera da alcuni considerata un parente povero di Amici miei, girato appena un anno prima da Mario Monicelli, è diventata il film della vita per tre o quattro generazioni di spettatori, che ne hanno imparato a memoria sketch, battute e facce, anche grazie ai tantissimi passaggi sulle nascenti televisioni private.
Sì, Febbre da cavallo è anzitutto un film di facce. Le facce degli scommettitori che si ritrovano all’ippodromo di Tor di Valle, ogni santo giorno, con la speranza di vincere e di dare una svolta alla loro vita.
Tra di loro, si prende tutta la scena Bruno Fioretti, interpretato da Gigi Proietti, l’ultimo erede della generazione dei fantasisti cresciuti tra cinema, teatro e televisione. Fioretti è una promessa mancata del cinema che passa le sue giornate in compagnia di due scansafatiche (Armando Felici, Er Pomata, e Felice, impersonati da Enrico Montesano e Francesco De Rosa) che, tanto quanto lui, inseguono da anni il colpaccio milionario sfogliando avidamente Il cavallo e inventandosi ogni stratagemma per racimolare i soldi necessari per giocare. L’istrione della compagnia, però, è Bruno, detto Mandrake, proprio come il mago dei fumetti. Tuttavia, i suoi prodigi riescono solo a metà: fa di tutto per beffare le sue vittime, su tutte il macellaio Otello Rinaldi (Ennio Antonelli) – perfidamente soprannominato Manzotin – si precipita a scommettere («82mila tutte su Antonello da Messina… Vincente!») ma, per un motivo o per un altro, resta sempre con un pugno di mosche in mano ed è perciò costretto a rimediare qualche soldo come indossatore di pellicce (in pieno agosto, per giunta!). Le sue grane, però, non finiscono al termine delle corse. Cosa raccontare alla fidanzata, la scrupolosa barista Gabriella (Catherine Spaak), alla fine della giornata? Mandrake lavora di fantasia, inventa giornate trascorse sul set come comparsa, accumula chiacchiere in serie che spaziano dai filetti di baccalà ai fumetti. Solo che la messinscena non regge e Gabriella, spazientita, gli tira addosso tutto quello che si trova davanti, salvo poi perdonarlo.
Non è difficile capire perché Mandrake sia stato il personaggio della vita di Gigi Proietti, la maschera che è entrata per acclamazione nell’immaginario collettivo: in quel ruolo così funambolico, infatti, l’attore romano (morto nel giorno del suo 80° compleanno) ha potuto dare prova della sua versatilità e del suo talento, traducendolo non solo in un’irresistibile comicità di parola («Anche voi, non prendete fischi per fiaschi, solo questo è un fischio maschio senza raschio!», esclama Mandrake nella sequenza girata sul set di uno spot pubblicitario, collezionando un’infinità di giochi di parole che manda in bestia il regista). Mandrake/Proietti funziona alla grande anche quando esce dal suo personaggio-icona per calarsi nei panni di Gregorio, il maggiordomo dell’improbabile conte De Simone («S-sì, zignor conte!»), così come in quelli del trottatore francese Jean-Louis Rossini. A conti fatti, Mandrake è l’adorabile mascalzone che ciascuno di noi avrebbe voluto essere: un perdigiorno dalla battuta pronta, astuto ma non troppo, tant’è che finisce sempre per cacciarsi nei guai.
Eppure, tutti noi (compreso chi scrive) gli abbiamo davvero voluto bene, perdonandogli le bugie e le malefatte, ridendo di gusto alle sue battute, consolandolo dopo ogni sconfitta. Così come si fa con gli amici veri.