Il 23 aprile si festeggia la giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, che si ricollega tanto a una tradizione spagnola risalente agli anni ’20 del ‘900 (quando il re Alfonso XIII promulgò un regio decreto che istituiva in tutta la Spagna la giornata del libro, fissandone la data in un primo tempo al 7 ottobre e in seguito a quella attuale), quanto alla tradizione medievale di celebrare il giorno di San Giorgio – il 23 aprile, appunto – donando una rosa alla propria donna. Le due tradizioni nella cultura catalana si sono in seguito saldate in una, e i librai spagnoli hanno cominciato a regalare una rosa per ogni libro venduto durante tale festa.
Nel 1996, su proposta di 12 nazioni in seno all’UNESCO, la data è stata confermata, anche in quanto anniversario della data di morte di Shakespeare, Cervantes e dello scrittore peruviano Inca Garcilaso de la Vega, nonché data di nascita del russo autore di “Lolita”, Vladimir Nabokov.
Quest’anno in Italia – come nella maggior parte degli stati europei – la ricorrenza cade durante il lockdown (nella migliore delle ipotesi) bimestrale deliberato dal governo per fronteggiare l’emergenza Coronavirus/COVID-19. E, nonostante le onnipresenti pubblicità ci incitino a “riscoprire le piccole cose e leggere un libro” e ad “affidarci agli editori veri”, alla prova dei fatti la situazione dei lettori, ma soprattutto dei librai e dei piccoli editori, nel nostro paese non è affatto… rosea. Se da una parte, il già sparuto drappello dei primi sta faticando un po’ più del solito a procurarsi il suddetto “nutrimento per lo spirito”, tra librerie chiuse e tempistiche dilatate per spedizioni e consegne, stante l’etichetta di “bene non essenziale” appioppata ai libri da Amazon nonché dai vari corrieri espresso, dall’altra librai ed editori, dopo un’odissea burocratica telematica, stentano a ricevere perfino i miseri 600 euro mensili promessi dall’INPS agli autonomi muniti di partita IVA. Si ritrovano infatti costretti a pagare affitti e contributi pur rimanendo in balìa dell’incertezza normativa ed economica, relativa per un verso al commercio fisico e per un altro a quello virtuale, malamente normato nonostante il suo prevedibile incremento dall’inarrestabile susseguirsi dei Decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri – ritenuti peraltro, da una pletora di esimi costituzionalisti, uno strumento inadatto a disciplinare materie così diseguali tra loro.
Anche la promessa del governo di inserire le librerie tra gli esercizi che per primi avrebbero potuto riaprire, ancor prima dell’inizio della cosiddetta “fase 2”, si è rivelata essere un fuoco di paglia: se in quasi tutte le regioni del Nord (secondo i dati della Protezione Civile le più esposte al contagio, certo, ma anche quelle in cui si gioca la partita di quasi il 70% del mercato editoriale italiano), prima fra tutte la Lombardia, le librerie sono state prontamente escluse dalla lista delle riaperture anticipate tramite apposite ordinanze regionali in contrasto con i DPCM governativi. Nelle altre regioni, è stato dato il via libera alla riapertura solo per due giorni alla settimana, favorendo peraltro così eventuali assembramenti – ammesso e non concesso che una simile evenienza possa verificarsi in una libreria – e costringendo gli esercenti a pagare per intero affitti e stipendi per poter lavorare potenzialmente ad 1/3 del regime consueto, e spesso, di conseguenza, a scegliere di rimanere chiusi, tout court. Tutto ciò senza nemmeno approcciarsi all’effettiva riduzione del volume del commercio librario, sicuramente superiore, visto il panico diffuso, la crescente difficoltà economica in cui versano molte famiglie e i dubbi sulla possibilità di annoverare la necessità di acquistare libri tra le eccezioni alla regola cardine del #restareacasa. dubbi interpretativi che implicano il fondato rischio di salate multe in caso di stop ai clienti da parte delle Forze dell’Ordine, specie se la libreria si trova oltre i 200 metri da casa o, Dio non voglia, addirittura in un altro comune.
I danni della persistente chiusura delle librerie si propagano poi “a cascata” anche sugli editori medio-piccoli, che, complici le limitazioni di movimento imposte a tutti i cittadini, la sospensione di eventi pubblici e fiere e il conseguente calo degli incassi, si trovano costretti a riprogrammare il calendario delle nuove uscite, spesso ritardandole (è ciò che è successo, ad esempio, all’attesissima biografia di Woody Allen edita da “La Nave di Teseo”, attesa nelle librerie per il 9 aprile e ora differita a fine maggio) o addirittura sospendendole fino a nuovo ordine, danneggiando così a loro volta le tipografie, a secco di nuove commesse ormai da due mesi.
L’unico aspetto positivo che caratterizza il mondo del libro rispetto a quello del turismo potrebbe essere dunque, in fin dei conti, la triste abitudine di chi ci lavora ad essere considerati dalla politica “figli di un Dio minore” – almeno fin dai tempi dell’infelice uscita di un politico nostrano, allora Ministro della Repubblica, che aveva tuonato: “Con la cultura non si mangia!”, frase peraltro ribadita nel 2014, con particolare riferimento alla storia dell’arte, anche dal modernissimo ed elegantissimo ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, durante un incontro con i giovani dell’Università del Wisconsin.
Forse sarebbe opportuno, allo, a adeguare il nome della festa di oggi, improntandolo ad un maggior rigore ed essenzialità: piuttosto che ai libri e alle rose pensare al pane e alle rose di un bel film di Ken Loach, che rimanda alle lotte e ai discorsi – decisamente più moderni di quelli che sentiamo oggi sulla cultura – dell’operaia femminista Rose Schneiderman, che nel 1912 diceva:
«Ciò che la donna che lavora vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere – il diritto alla vita così come ce l’ha la donna ricca, al sole e alla musica e all’arte. Voi non avete niente che anche l’operaia più umile non abbia il diritto di avere. L’operaia deve avere il pane, ma deve avere anche le rose».